16/07/2024
Lavoro Perché Sono Poverə,
Sono Poverə Perché Lavoro
16/07/2024
Lavoro Perché Sono Poverə,
Sono Poverə Perché Lavoro
Tempo di lettura: 10 minuti
Nel 1930, Keynes tiene una lezione intitolata Prospettive Economiche per i nostri Nipoti.
L’economista, in questa occasione, si azzarda a fare previsioni per il futuro: ammesso che l’aumento annuo della produttività di ricchezza rimanga più o meno la stessa, “il problema economico”, secondo l’economista, si sarebbe risolto nel giro di un secolo.
Keynes si immagina dunque i cittadini del 2030 come persone immerse nel benessere collettivo, che lavorano solo 3 ore al giorno, per un totale di 15 ore alla settimana.
Questa prospettiva rappresenta in pieno il capitalismo progressista, quello “seriamente” intenzionato ad abbassare il tasso di disoccupazione, della povertà e della disuguaglianza economica, e convinto che un simile risultato si possa raggiungere tramite i mezzi del sistema stesso.
Fondamentalmente, stiamo parlando dell’apice di un’utopia irrealizzabile. Il sogno keynesiano consiste nel pensare di poter manipolare il capitalismo – una macchina progettata per macinare profitti attraverso lo sfruttamento – in modo che faccia gli interessi di tuttə.
Ovviamente, il sogno è irrealizzabile, e infatti, come possiamo ben vedere, Keynes aveva torto.
Aveva torto proprio perché incapace di riconoscere fino in fondo le dinamiche marce e corrosive del sistema economico. Piuttosto, si immaginava di poter salvare l’economia da sé stessa a colpi di stimoli estemporanei e deficit pubblico, senza mai metterne in dubbio le logiche di base.
I reali obiettivi del capitalismo invece sono due: accumulare capitale (attraverso gli investimenti) e fare in modo che i pochi che possiedono questo capitale – il 3% della popolazione umana – facciano sempre più profitti.
La discrepanza tra i risultati effettivi del sistema e le illusioni di Keynes sono davanti ai nostri occhi. Le ore di lavoro effettivamente performate ogni giorno stanno pian piano aumentando, mentre quelle legali sono praticamente le stesse degli anni ‘30 (vi ricordate? quando metà Europa era governata da nazi e fasci – esattamente come oggi).
Il lavoro precario è esploso, aumentando a ritmi vertiginosi. In Italia, oggi 1 lavoratorə su 8 è poverə. Praticamente più del 15% della classe lavoratrice. Oltre 9 milioni di persone vivono nella povertà, e il dato aumenta di anno in anno.
La situazione Europea non è molto diversa dove in media, il 10% dellə lavoratorə è povero.
Proprio durante l’epoca Keynesiana – dagli anni ‘30 agli anni ‘70 – il lavoro si era trasformato a piccoli passi in uno strumento emancipatorio, capace di scongiurare la miseria. Oggi invece lavoro e povertà sono praticamente sinonimi.
In quel periodo si solidificò il rapporto tra lavoro e garanzia di una vita rispettabile (relativamente al livello di ricchezza reale del tempo) tanto che i ricchi erano gli unici a potersi permettere un’esistenza lussuosa senza dover lavorare.
Nel 2024, invece, le persone che lavorano e possono permettersi una vita degna (sempre in base alla ricchezza effettiva prodotta) sono pochissime. Il gap tra le condizioni reali in cui viviamo e quelle in cui potenzialmente potremmo vivere non è mai stato così alto nella Storia umana.
Ce ne rendiamo conto perché il livello dei salari – cioè la ricchezza che torna alla classe lavoratrice rispetto a quella totale – è crollato negli ultimi 40 anni, passando da una media del 70% negli anni ‘60 ad una che arriva a malapena al 50% negli anni recenti.
Appena il paradigma economico Keynesiano ha lasciato intravedere alla società capitalista l’abbozzato orizzonte di una società dell’Abbondanza, appena tutte le persone oppresse hanno rivendicato il diritto ad una vita degna (e non solo i lavoratori maschi, bianchi e sindacalizzati), il capitalismo ci ha chiuso la porta in faccia e ha lasciato tuttə fuori. Nel farlo ha distrutto la maggior parte dei diritti per cui quei lavoratori avevano duramente lottato.
Di conseguenza, il lavoro è diventato sempre più estenuante. In tutto e per tutto, è alienante e onnipresente. Si è esteso ad ogni ambito della nostra vita, ha imparato a sfruttare anche la nostra conoscenza e le nostre interazioni per creare ricchezza – non solo nelle ore di lavoro, ma anche durante il cosiddetto “tempo libero” – mentre i frutti del nostro lavoro finiscono nelle tasche dei ricchi.
La colpa sta nelle compulsioni illogiche del capitalismo che ha sempre più bisogno di posti di lavoro a basso costo, di persone disperate che giocano al ribasso rinunciando ai loro diritti e di Istituzioni guidate dal profitto, disposte a rubare tutto ciò che non è ancora stato privatizzato.
Insomma, si lavora per uscire dalla povertà. Ma il lavoro è proprio ciò che ci mantiene intrappolatə in questa condizione di miseria.
Mancanza di tempo, burnout, insoddisfazione e frustrazione: il lavoro è oggettivamente una merda, un male sempre meno necessario da minimizzare a tutti i costi.
Ritorniamo però all’affermazione di Keynes, perché non possiamo neanche dire che le sue previsioni fossero completamente sbagliate.
Da un punto di vista tecnico, Keynes aveva perfettamente ragione.
La ricchezza complessiva è aumentata esattamente quanto preventivato dall’economista inglese.
Tecnicamente parlando, l’apparato produttivo del capitalismo ha creato le condizioni per il superamento della scarsità proprio sulla base di dinamiche economiche organiche, coerenti alle sue logiche interne: la produttività del lavoro è aumentata, i costi e il tempo necessario di lavoro sono diminuiti, e la tecnologia è avanzata notevolmente.
Quello di cui parla Keynes è possibile. La sua utopia è in realtà perfettamente realistica, semplicemente viene repressa perché è in diretto contrasto con le priorità economiche del capitalismo.
Se è vero che oggi per vivere bene basterebbe lavorare 3 ore al giorno, allora vuol dire che il sistema ci sta rubando il tempo, il reddito e il futuro. Vuol dire che il lavoro è uno strumento che ha cambiato funzione – prima si lavorava per mangiare, oggi lavoriamo per non godere del cibo, per non disporre di tutto il tempo e di tutte le risorse a cui potremmo avere accesso se solo delle macchine lavorassero al posto nostro.
Non è surreale che le intelligenze artificiali, invece di risolvere e alleggerire i lavori più pesanti, si evolvono principalmente per svolgere quei lavori creativi che noi non possiamo fare proprio perché lavoriamo troppo?
È necessario riprogrammare l’apparato produttivo costruito dal capitalismo secondo altre logiche.
Solo così possiamo realizzare la possibilità di lavorare il minimo possibile e di usare la ricchezza accumulata in millenni di Storia per il benessere collettivo, onorando i sacrifici che lə nostrə antenatə hanno fatto nella dura lotta per la sussistenza.
Per riprogrammare il sistema, serve costruire delle nuove esperienze di lotte sul lavoro, lontane dalla reattività sterile dei sindacati che ancora pensano a “salvare le persone dalla disoccupazione”.
Le persone odiano già il lavoro che fanno. Il problema della disoccupazione è la povertà che ne segue, non il fatto di non avere un lavoro.
Questo processo va invertito. Se oggi l’automazione è un’arma nelle mani del padrone, che sorveglia e minaccia lə oppressə, un domani può e deve diventare un modo per risparmiarci dai lavori più faticosi, per ridurre le ore lavorative necessarie per tenere in piedi l’economia, e per semplificare il lavoro che va svolto necessariamente.
Il lavoro sta diventando sempre più marginale nella produzione economica. Questo ormai è un fatto oggettivo e non deve spaventarci.
Da qui, il percorso si divide in due strade:
L’1% vince. Le Intelligenze Artificiali ci cloneranno, esclusivamente perché un clone di noi stessi possa stare con i nostri cari mentre noi lavoriamo incessantemente, con l’unico scopo di regalare profitti ai ricchi.
Oppure, il 99% prevale. Ci ritroveremo a sorvegliere un processo di produzione così fluido da andare quasi in automatico. Ci lasceremo alle spalle la tortura della lotta per la sussistenza ed entreremo in una nuova epoca storica, definita dall’abbondanza e dalla prosperità collettiva.
La scelta è nelle nostre mani.