30/10/2024
La Cibernetica

del Capitale
Schizzi di un Framework Critico-Sistemico per lo Studio dell’Economia Moderna
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Schizzi di un Framework Critico-Sistemico per lo Studio dell’Economia Moderna

I.



Studiare i processi del sistema economico in cui viviamo è un lavoro sporco, ma qualcunə dovrà pur farlo. Una comprensione reale e profonda dell'economia e delle sue dinamiche reali è il prerequisito fondamentale per ogni tentativo di portare avanti una lotta politica emancipatoria ed efficace.

Con questo articolo di "Teoria per il 99%" vogliamo introdurre gli schizzi di un framework moderno di analisi economica, in grado di fornirci una mappa cognitiva per comprendere il funzionamento del capitalismo.


Divideremo l'articolo in due parti: la prima descrive la differenza dei due approcci teorici contrapposti e viviseziona i processi più oggettivi del sistema.

La seconda parte invece si occupa di analizzare le dinamiche più soggettive, dove la lotta di classe gioca un ruolo di prim'ordine.


Questa divisione non è così netta: le cause oggettive e soggettive agiscono simultaneamente nel sistema, che dunque per essere analizzato in modo esaustivo necessita di integrare la lotta di classe già direttamente nel framework analitico e non in un secondo momento.

Al tempo stesso, per facilitare la comprensione di un sistema complesso come il capitalismo c'è bisogno di procedere per mediazioni cognitive ed astrazioni concettuali, che siano in grado di individuare e separare le cause oggettive e quelle soggettive di un qualsiasi fenomeno economico.


Dagli anni '80, con la vittoria ideologica del neoliberismo, le teorie economiche critiche del capitalismo sono finite sullo sfondo, creando un gap di conoscenze all'interno di questo campo. Abbiamo il dovere di recuperare questa legacy interrotta e di adattarla alla situazione economica, sociale e politica odierna.


Se non conosciamo i processi di azione-retroazione, le contraddizioni, le dinamiche costruttive e distruttive che tengono in piedi il capitale, continueremo a procedere a tentoni quando si tratta di costruire Movimenti conflittuali e di rottura con lo Status Quo. In poche parole significa al 100% perdere la lotta di classe (di nuovo).

Davanti alla congiunzione delle crisi contemporanee – crisi climatica, bellica, economica, sociale e politica – uscire nuovamente sconfittə dallo scontro politico e ideologico è un lusso che non possiamo permetterci.

I.

Un Approccio Individualista e Romantico

In economia esistono molte scuole di pensiero diverse, economisti con visioni contrapposte e professori che insegnano approcci all’apparenza differenti.

Eppure, una volta che si supera la superficie, si vede un consenso “accademico” quasi unanime nei confronti dell’economia di mercato (perché si vergognano a dire “capitalismo”), reputata all’unisono come il regime economico più efficiente.

Indipendentemente dunque dalle critiche a questo o quell’aspetto del capitalismo, emerge un approccio comune – mainstream – che va oltre queste piccole divergenze: noi lo chiamiamo Approccio Individualista-Romantico, oppure Approccio Mainstream.


Quest'approccio parte da una visione romanzata dell'individuo come soggetto iper-razionale, capace di discernere oggettivamente le scelte migliori che può fare sulla base di quelle realizzabili.

In un contesto di informazioni complete, la società non può che essere il riflesso delle preferenze e dei desideri individuali delle persone. Le varie scuole di pensiero, al massimo, si scontrano su cosa significhi "informazioni complete", ma non mettono in dubbio che le scelte siano il punto di partenza e la società il punto di arrivo.


Individui => Scelte => Forma della Società

[Framework da cui partono le scuole di pensiero mainstream]


Ecco qui il presupposto alla base della Teoria Soggettiva del Valore Economico, ovvero l'idea che la ricchezza sociale sia misurata e categorizzata sulla base delle preferenze soggettive delle persone.

Questa teoria parte dunque dagli individui e arriva alla società: non c'è niente di strutturale che si frappone tra la volontà delle persone e i risultati effettivi dell'economia. Uno strano riecheggio del motto fascista "volere è potere".


Ad amplificare l'assonanza con l'estrema destra c'è anche una considerazione implicita, un segreto di Pulcinella che deriva dalle logiche dell'approccio mainstream: se stai in basso nella gerarchia sociale, significa che questo è il risultato delle tue scelte individuali sbagliate.

Ma se consideriamo che c'è una forte correlazione tra povertà, classe, razza, genere e appartenenza a popoli non-occidentali, ne deriva implicitamente che queste categorie (operai, donne, persone razzializzate ecc) sono incapaci di compiere scelte razionali se comparate al resto della società.

Questi sono i risultati dei presupposti dell’approccio mainstream portate alle loro logiche conseguenze: chissà quali forze politiche sostenevano l'inferiorità intellettuale e civile di queste categorie marginalizzate....


La definizione di economia, secondo l’Approccio Mainstream è “l’allocazione efficiente di risorse limitate, scarse".

Torniamo a noi nuovamente.


Abbiamo detto che secondo l’Approccio Individualista-Romantico, le scelte degli individui forniscono gli stimoli all’economia per stabilire cosa produrre, come produrlo e in che modalità distribuire la produzione.

Al tempo stesso c’è bisogno di agganciare queste scelte individuali e ad un uso efficiente di risorse limitate: questo è il compito del mercato.

Dunque solo il mercato può "compiere l'economia", ovvero massimizzare l'efficienza dell'allocazione di risorse in condizioni di scarsità economica.

Il mercato per loro è l’equivalente dell'economia.


Partendo da questi presupposti, la favoletta che ci raccontano gli economisti mainstream va così: c'è un mercato dei fattori di produzione e un mercato dei consumi.


Nel primo, ogni pezzo della società collabora spontaneamente per mandare avanti la produzione: i capitalisti mettono gli impianti produttivi e ricevono indietro i profitti, la classe lavoratrice mette la sua forza-lavoro e riceve indietro un salario, i landlord mettono a disposizione le materie prime e ricevono indietro la rendita, e infine lo Stato mette a disposizione infrastrutture pubbliche e riceve le tasse.

Nessuno si pone la domanda del perché alcuni possiedono materie prime e impianti produttivi mentre altri sono costretti a campare solo del proprio lavoro, ma queste sono questioni troppo profonde per un approccio così superficiale.


Nel mercato dei consumi invece, esistono produttori e consumatori che, in base alla domanda e offerta, si scambiano i beni e ognuno di loro riceve un surplus, una soddisfazione personale. Chi vende preferisce il denaro rispetto alla merce che ha in mano; chi compra preferisce la merce rispetto al denaro nel portafoglio. Ecco i presupposti entro cui si verifica lo scambio di merci che secondo la teoria mainstream sarebbe proprio il processo che produce la ricchezza.


Da dove viene questo mercato? Sempre secondo quest’approccio, il mercato non è che l'evoluzione spontanea dell’inclinazione insita nella natura umana allo scambio economico. Diversi biologi stanno ancora, invano, cercando il gene all'interno del nostro DNA che determina la propensione allo scambio economico, ma siamo sicurə che prima o poi si troverà….


Un approccio del genere è, per forza di cose, superficiale: è incapace di andare in profondità e di vedere ciò che il sistema nasconde, i suoi aspetti strutturali che non puoi vedere e toccare.

Come già notava Marx, più di 150 anni fa, invece che soffermarsi sulla produzione e stratificazione della ricchezza sociale, questo approccio (che lui avrebbe chiamato "borghese") si sofferma sui processi di scambio economico.


Quante volte, infatti, sentiamo gli economisti parlare di cose superficiali, come la presunta contrapposizione tra mercato libero e regolamentazione statale, come si creano dei mercati più efficienti di altri, oppure su come si disegnano su dei grafici delle funzioni che rappresenterebbero le preferenze razionali degli individui.

Non si sente quasi mai parlare di rapporti di produzione, di come si formano strutturalmente i prezzi, dei conflitti d’interessi tra gruppi sociali diversi, o della complicità della politica nel mercificare beni e risorse comuni per darle in pasto ai mercati.


Addirittura per la teoria economica mainstream le divisioni sociali emergono da fattori tecnici e non di potere (e dunque politici): nella loro visione la società è caratterizzata da armonia sociale.

Dunque ogni forma di conflitto è necessariamente una degenerazione irrazionale di un gruppo politico malintenzionato. Ancora una volta, chissà quale ideologia dittatoriale la pensava nello stesso modo.

In generale, le basi mainstream su cui si dividono le classi sociali sono linee arbitrarie messe dagli economisti a seconda di cosa conveniva loro per i calcoli: a volte la società si divide in produttori e consumatori, altre volte secondo casuali fasce di reddito, senza una logica sensata.


L'approccio mainstream è problematico sotto tanti punti di vista e ne abbiamo già accennati alcuni. Il principale problema però, quello più profondo, è la circolarità logica dei suoi ragionamenti.


L'esempio più eclatante è il suo tentativo di spiegare la formazione dei redditi e la loro disuguaglianza.

Come abbiamo visto, secondo loro, ogni classe sociale (lavoratori, capitalisti, Stato e landlord) porta sul piatto una componente tecnica della produzione (forza-lavoro, impianti, materie prime, infrastrutture pubbliche) e riceve indietro un reddito che corrisponde a quanto valore ha aggiunto alla produzione.

Dunque se il lavoratore guadagna un reddito di 4 cifre e il capitalista un reddito da 8 cifre significa che il capitalista ha contribuito di più del lavoratore nei processi di produzione.

Come possiamo determinare se il capitalista ha davvero contribuito di più del lavoratore? Beh, guarda il suo reddito!


Quindi il capitalista guadagnerebbe di più di chi lavora sulla base del valore aggiunto dei macchinari, a sua volta determinato da quanto guadagna il capitalista, a sua volta determinato dal valore aggiunto dei macchinari, determinato da quanto guadagna il capitalista.

Questa è una spirale pseudo-logica mortale, una trappola ignorata dagli economisti, in quanto il loro lavoro non è comprendere realmente l’economia, ma giustificare il capitalismo.


Insomma, l'approccio economico mainstream è costellato di problematiche: parte da una visione romanzata dell'individuo, procede per logiche circolari e giunge a conclusioni che se prese alla lettera danno vita alle peggiori forme di giustificazionismo di povertà economica e brutalità politica.

Siamo davvero condannatə a questa sorte se vogliamo indagare i processi economici reali? Per fortuna no: un altro approccio, critico e sistemico, è pronto a salvarci da quest’immondizia.

II.

L’Approccio Critico-Sistemico

L'approccio individualista-romantico è diventato egemone solo perché negli anni '80 i Movimenti Operai sono usciti sconfitti nella serrata lotta col capitale seguita alla crisi del ‘73. Con questa sconfitta è andata persa gran parte del bagaglio teorico di critica dell'economia politica. Questo approccio critico, o critico-sistemico, deriva dalla tradizione marxista, ma, nel corso dei decenni in cui contendeva l'egemonia agli approcci più conservatori, ha coinvolto parzialmente anche altre scuole di pensiero.


In ogni caso, la spina dorsale della critica al capitalismo non la si può che ritrovare nella metodologia di Marx e di chi ha provato incessantemente a rinnovarla sulla base delle nuove configurazioni assunte dal capitalismo.


L'approccio critico-sistemico riconosce la realtà dei fatti: la realtà sociale è costellata da risultati, effetti e processi indesiderati dalla maggior parte delle persone, nonché fuori dal loro controllo.

Significa che deve esistere qualcosa che si frappone tra la nostra volontà e la realtà oggettiva, una struttura che media le nostre esigenze e i nostri desideri con delle logiche sottostanti ed impersonali. Ci dev’essere, da qualche parte, un mostro più grande di noi: un sistema economico, con delle sue logiche, meccanismi, processi, dinamiche e strutture a sé, solidificatesi nella Storia.


L'economia non è dunque un'estensione delle nostre facoltà naturali, ma una costruzione sociale sedimentata nella Storia che fa da cornice all’interno della quale si inseriscono i nostri desideri.

Non esiste un sistema economico che nasce dalla libera espressione della natura umana, come ci dicono gli apologeti del capitalismo: se diamo uno sguardo alla Storia possiamo osservare una grande costellazione di sistemi economici diversi che l’hanno attraversata, ognuno con le sue specificità, le sue forze, debolezze e contraddizioni sociali.


Per l’Approccio Critico-Sistemico sono i modi con cui organizziamo l’economia a formare le persone e non viceversa.


Sistema Economico => Desideri Individuali


D’altronde possiamo desiderare solo ciò che è (o ci sembra) possibile: i parametri del possibile dipendono dalla capacità produttiva e dalle logiche del sistema economico in cui viviamo.


Il valore economico è dunque risultato delle logiche e delle strutture di questo sistema e non delle preferenze individuali delle persone (come suggerito dall’Approccio Mainstream): da qui troviamo i presupposti della Teoria Oggettiva del Valore Economico. In particolare è l’allocazione della forza-lavoro complessiva a determinare il valore: più un settore assorbe forza-lavoro, più ricchezza produce.

Per comprendere meglio questa teoria ne abbiamo parlato in questo articolo su Salario, Prezzo, Profitto di Karl Marx.


L'Approccio Critico-Sistemico riconosce la grande tragedia che permea l'umanità e la società civile.

Per provvedere meglio alla nostra sopravvivenza come specie, abbiamo iniziato a collaborare, a unirci in gruppi e a rapportarci secondo diversi tipi di relazioni sociali. In modo spontaneo, guidate dalla pura necessità di lottare per la propria sussistenza, le persone iniziano a creare i primi tasselli della società.


Nel corso della Storia queste relazioni sociali hanno iniziato a solidificarsi, a prendere vita propria e a porre vincoli e opportunità agli individui inseriti al proprio interno. Da padroni di queste dinamiche le persone sono diventate assoggettate alle loro logiche profonde.

È anche per questo che, più di modellini matematici da 4 soldi, il nostro è un approccio storico e politico, che valuta le tendenze storiche del sistema e non situazioni statiche create a tavolino dai professori di economia.


Tutti questi processi che emergono alle spalle della volontà umana sono la parte oggettiva del sistema: il suo studio non è molto diverso da quello con cui si analizza un circuito elettrico o un sistema naturale.


Prendiamo una mosca: quando mangia un cadavere questo insetto sta compiendo una delle azioni più importanti per l'intera riproduzione dell'ecosistema, ovvero la decomposizione. Ma questo la mosca non lo sa: lei sta solo seguendo le sue esigenze di sopravvivenza.

Lo stesso succede quando noi andiamo al supermercato. Acquistando una merce qualsiasi si compie una delle azioni più importanti per l'economia capitalistica: la realizzazione dei suoi profitti sul mercato con cui il capitale ricava il denaro necessario per far proseguire la sua produzione economica anche il mese e l'anno successivo.

Ma nessuna persona va al supermercato con questa intenzione: ci andiamo sotto la spinta di soddisfare le nostre esigenze e desideri.


La cibernetica, nelle altre scienze, è definita come lo studio dei sistemi dinamici.

Dunque l'economia va studiata come un sistema e, nel caso particolare del capitalismo, parliamo di un sistema dinamico.

L'approccio critico-sistemico dunque apre le porte per la cibernetica del capitale.

Indagando un campo sociale (e non naturale) la cibernetica del capitale studia i processi inconsci del sistema, le sue pulsioni più profonde e le sue condizioni necessarie di esistenza.

In altri termini si tratta di una vivisezione delle complesse interazioni tra le logiche del sistema, le sue componenti, le sue dinamiche e le sue strutture in un framework unico, trattando il capitalismo come un corpo organico.


Il capitalismo in particolare è il sistema più dinamico di quelli storicamente esistiti: possiede sicuramente strutture solide e immutabili, ma al tempo stesso ha una grande malleabilità, elasticità e capacità di adattamento alle insidie poste dalle classi oppresse.


Oltre alla componente oggettiva del sistema, troviamo anche la sua componente soggettiva, che rientra totalmente nelle dinamiche cibernetiche e che è anzi la sua componente più importante.

Infatti, se prima l'esempio della mosca è stato calzante, c'è anche da dire che – proprio perchè ci troviamo immersi in una situazione costruita socialmente, e non in balia delle leggi naturali – l'umanità ha un certo margine di manovra nel poter modificare il suo stesso ordine sociale.


Se la società è stata costruita socialmente essa può essere cambiata: da questo semplice principio deriva la componente soggettiva del sistema.

La soggettività sociale è la vera e propria mina vagante dell'economia, l’aspetto della società che ha permesso i grandi cambiamenti epocali e le rivoluzioni sociali susseguitesi nella Storia.


Dunque non siamo deterministi: la parte oggettiva del sistema, se isolata concettualmente, ha logiche proprie che si autoalimentano per conto proprio, ma necessita sempre di quella soggettiva per poter essere messa in moto.

Le persone hanno agency, possiedono una soggettività, ma sono le condizioni oggettive che stabiliscono il campo del possibile.


  • "Gli uomini fanno la propria storia ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze [oggettive] che essi trovano immediatamente davanti a sé.

L'approccio critico-sistemico dunque va in profondità: il suo focus è sulla produzione di valore aggiunto e non sullo scambio di merci.

Le divisioni sociali si formano proprio in questi processi di produzione e sono divisioni politiche e non tecniche: i rapporti economici nella produzione diventano rapporti di potere all'interno della società.

Le classi sociali sono dunque relazionali: sono i loro conflitti d'interesse a distinguerle, nonché il fatto che una delle due detiene il potere mentre l'altra lo subisce.


Oggi è la classe capitalista quella al potere, mentre la classe operaia è quella subordinata. In passato erano i latifondisti contro i servi della gleba, i padroni contro gli schiavi, patrizi contro plebei. Al cambiare del sistema economico cambiano le classi e le forme del conflitto, ma il rapporto di potere resta lo stesso.

La società è dunque pervasa da un continuo sottofondo di conflitto sociale, scontro politico e lotta di classe, a volte tacita, a volte esplosiva, ma che non ha nulla a che vedere con la romanzata armonia sociale predicata dagli economisti mainstream.


Vogliamo dunque riassumere le differenze dei due approcci in una tabella omnicomprensiva:


Prima di parlare della sua cibernetica, dovremmo un attimo definire che cos’è il capitale. Fondamentalmente parliamo di un mostro a tre facce.

La prima mostra il suo aspetto più superficiale – e infatti è l’unica faccia accettata anche dall’approccio mainstream – e rappresenta l’insieme di quei prodotti che vengono utilizzati come input di produzione. I macchinari, i computer da ufficio, gli impianti produttivi semi-automatizzati delle case automobilistiche, le fabbriche ecc…. Sono beni usati per impieghi produttivi.


La seconda faccia rappresenta la sua visione monetaria: il capitale è denaro che viene anticipato con lo scopo di aumentarne il valore e ottenerlo sottoforma di profitto.

La terza faccia è quella che indica il suo lato più sistemico: il capitale è una relazione sociale. Ogni quantità di capitale comanda una corrispondente quantità di lavoro e il capitale in generale controlla la forza-lavoro sotto le sue direttive. Il rapporto capitale-lavoro è diseguale, sbilanciato dalla parte del primo che, avendo storicamente separato la forza-lavoro dai mezzi di produzione, ha il coltello dalla parte del manico.

Per approfondimenti sul capitale come relazione sociale, consigliamo l’articolo di Anwar Shaikh intitolato appunto “Capital as Social Relation”.


Possiamo ora procedere con lo studio della cibernetica del capitale, vivisezionando il sistema nei suoi tasselli principali. Ogni capitolo dunque si sofferma su un particolare tassello e prova a costruire delle mappe logiche per ognuno di loro.

III.

Il Profitto è l’Unica Cosa che Conta

Un sistema economico è tale quando le persone interagiscono tra di loro e, attraverso questa cooperazione, riescono a produrre di più di quanto avrebbero fatto in modo isolato.

Una società che produce di più di ciò che torna indietro ai produttori diretti si dice “produttrice di surplus”.

Il surplus è la ricchezza reale che rimane alla società una volta che sono stati riprodotti tutti gli input di produzione (materie prime, attrezzi da lavoro ed energie umane/forza-lavoro). Nel caso del sistema capitalista, gli input si dividono in capitale (materie prime e macchinari) e lavoro.

È l'esistenza del surplus che genera progressivamente la politica. Come lo si riproduce? Quali sono i processi decisionali dietro il suo utilizzo? A che gruppo di persone spetta e in che proporzioni? Chi è nel gruppo dei produttori diretti e chi nel gruppo "improduttivo"?

Insomma come gestiamo e organizziamo la produzione e riproduzione della nuova ricchezza generata dalla cooperazione umana?

Da queste domande implicite si formano progressivamente i modi di produzione specifici e storicamente esistiti, nonché le istituzioni politiche, economiche e sociali.


No surplus, no politics.


Nella società capitalistica, il profitto è la forma specifica in cui si presenta il surplus: un guadagno monetario realizzato sul mercato.

Il profitto è la differenza tra il fatturato ottenuto dalle vendite e i costi di produzione.


S (Surplus o Profitto) = Prezzo Merce*Quantità Venduta - (Monte Salari + Costo del Capitale)


Già qui vediamo emergere quindi due diverse fonti di reddito: reddito da lavoro (salari) e reddito da capitale (profitti).

È precisamente questa discrepanza nella fonte di reddito che esplicita il conflitto di interessi tra capitale e lavoro. La classe operaia vuole massimizzare i salari erogati mentre per la classe capitalista questi sono un costo da minimizzare necessariamente.


Le due classi sociali non si dividono quindi sulla base di caratteristiche innate all'interno della classe operaia o dei ricchi: sono il risultato delle logiche operative del sistema stesso. Le stesse forze che fanno aumentare uno dei due tipi di reddito sono il freno a mano per l'aumento dell'altro.

Salari e profitti sono in relazione opposta, inversamente proporzionale.

Questo non significa che reddito da lavoro e reddito da capitale non possano aumentare insieme, anzi è difficile che il monte salari o i profitti crollino in termini assoluti (al massimo solo in una crisi profonda e strutturale).

Ma se li rapportiamo tra di loro l'aumento della massa di profitti ha sempre l'acceleratore al massimo; l'aumento dei salari invece ha sempre il freno a mano tirato.


L’aumento della grandezza assoluta e complessiva dei profitti è la priorità numero uno del sistema, costretto ad allargare sempre di più il volume della produzione e di surplus prodotto.

Questa tensione all'aumento di profitti appare in superficie come la tendenza ad abbassare i costi di produzione ed aumentare le vendite. Vedremo in avanti le modalità con cui esso lo fa.


La pulsione al profitto è la logica più profonda del sistema ed emerge alle spalle anche di chi vive di reddito da capitale, ovvero la classe al potere. Ogni capitalista è forzato ad aumentare sempre di più la massa dei suoi profitti per evitare di essere spazzato via dalla feroce concorrenza di mercato. L'approccio sistemico coglie nuovamente ciò che manca all'approccio mainstream: riconoscere quelle dinamiche economiche talmente radicate e fossilizzate che superano anche la volontà esplicita della stessa classe al potere.


Profits aren’t everything: they’re the only thing that matters è un libro di George Cloutier e Samantha Marshall che esplicita questa logica usando il linguaggio stesso dei padroni di capitale economico. I profitti sono l'unica cosa che conta: queste sono le parole di un capitalista onesto, che rivela esplicitamente un segreto di Pulcinella.

Eppure, se notate, le recensioni parlano di un libro controcorrente, che non ha paura di dire la realtà dei fatti: com'è possibile essere controcorrente quando confermi e accetti passivamente ciò che Marx e gli economisti classici (Smith e Ricardo in primis) sapevano benissimo già 150-200 anni fa?

La risposta è semplice: la teoria economica mainstream è così abituata a colorare di arcobaleno il capitalismo che si dimentica dei suoi processi più bui e contraddittori.


A questo punto, per comprendere le dinamiche profonde del sistema, dobbiamo trovare la fonte reale del profitto.

La domanda "da dove viene il profitto?" fu un vero cruccio degli economisti classici, da Smith a Ricardo passando per Malthus. Dobbiamo aspettare Marx per poter apprezzare una teoria capace di scoprire la sua vera fonte: il profitto deriva dallo sfruttamento della classe operaia.


Per comprendere questo passaggio dobbiamo, purtroppo, usare lo strumento più abusato dagli economisti: la matematica. Giuriamo però che la facciamo semplice.


Prima della vendita, il valore del prodotto totale (Y) è uguale alla somma del valore dato dal capitale – il lavoro morto (m) – più quello erogato dalla classe operaia durante la giornata lavorativa, ovvero il lavoro vivo (v).


Y = m + v


Quando la merce viene venduta sul mercato, invece, lo stesso valore del prodotto totale (Y) è uguale al costo del capitale (K) più costo del lavoro (L) più i profitti realizzati, o surplus totale (S).


Y = K + L + S


Abbiamo quindi un sistema con due equazioni


Y = m + v

Y = K + L + S


Questo significa che m + v = K + L + S.

La parte di sinistra (m + v) rappresenta il valore generato dalle due componenti degli input di produzione; K + L invece rappresenta il prezzo di queste due componenti, ovvero quanto costano quando bisogna ricomprarle per produrre anche l’anno successivo.

Significa che “S”, ovvero il profitto totale, deve necessariamente emergere da una disuguaglianza tra il valore generato da una delle due componenti e il suo prezzo d’acquisto.


La componente di lavoro morto, ovvero il capitale, viene scambiata all'interno della classe capitalista. Se un capitalista vende una macchina (K) ad un prezzo superiore di quanto questa produce (m), sarebbe un altro capitalista a perderci: i due fenomeni si bilanciano vicendevolmente e quindi non viene creato profitto aggregato. Non può essere il capitale la fonte del profitto: il lavoro morto si limita a trasferire il suo valore durante la fase di produzione.


Dunque, se si guarda l'intera economia, m = K e quindi S = v - L

Il profitto deriva, per esclusione, dallo sfruttamento della classe operaia, ovvero dalla differenza tra il prodotto generato dal lavoro vivo (v) e la ricompensa, sottoforma di salario, per il lavoro svolto (L).

Col termine "sfruttamento del lavoro" non si intende quindi un giudizio moralistico nei confronti dei ricchi. Si parla invece della condizione di esistenza fondamentale dell'intero sistema economico capitalistico: la sua pulsione principale, il profitto, non può esistere senza un imperterrito processo di sfruttamento della classe operaia.


Ogni classe al potere storicamente esistita, compresa quella contemporanea, vive di rendita del lavoro non pagato della sua forza-lavoro: il suo potere economico è direttamente proporzionale allo sfruttamento subito da chi lavora nelle sue imprese.

Ecco la fonte della grandiosa crescita economica a cui gli economisti liberali si aggrappano per giustificare il capitalismo.


Se ogni centesimo di reddito da capitale è il risultato dello sfruttamento della forza-lavoro, l’obiettivo del sistema è l'aumento indefinito di questo sfruttamento.

Ci troviamo dunque davanti al più grande paradosso di sempre: la società non è mai stata così ricca e le persone non sono mai state così tanto sfruttate.

Si guardi a Karl Marx, Il Capitale, Vol. I, Capitolo 4 “Trasformazione del denaro in capitale”.

Ecco dunque il primo processo cibernetico del capitalismo che trova il suo motore proprio nell'impulso al profitto.

Il capitale anticipa del denaro per comprare gli input di produzione (D), produce una merce sfruttando il lavoro (M) e a quel punto vende la merce (D') realizzando un profitto sul mercato (D' - D = Profitto).

Questa è la catena dell’accumulazione di capitale scoperta da Marx, un processo cibernetico raffigurato come D-M-D’.
IV.

Circuito del Capitale, Competizione e Mercato

Abbiamo visto che il capitale si auto-valorizza, ovvero è in grado di espandersi partendo da sé stesso, grazie allo sfruttamento di lavoro vivo. Per poterlo fare ha bisogno di uno spazio economico all'interno del quale possono circolare tutte le merci, capitale compreso.

Questo è il circuito del capitale, il percorso ciclico che compie ogni singola unità di capitale investito.

Scoperchiando questo processo possiamo comprendere come funziona il capitale internamente e come riesce a propagare le sue logiche in tutta l’economia, dando vita alla dinamicità che lo contraddistingue.

Che sia attraverso un prestito (capitale monetario) o attraverso finanze interne, il capitale parte sempre come somma di denaro anticipata posseduta da un'impresa. Questo è il capitale operativo all'interno delle imprese, che corrisponde alla fase D all’interno della catena dell’accumulazione.

Dopodiché, attraverso il mercato dei fattori di produzione, questo capitale si divide nei due input di produzione: il capitale (K) e la forza-lavoro (L), con il primo che trasferisce il valore morto (m) e il secondo che aggiunge il lavoro vivo (v). Questa è la fase M sempre della catena dell’accumulazione.


Per chiarezza, sottolineiamo che i settori del capitale sono diversi dai settori industriali. I primi individuano le 3 componenti del capitale sottoforma monetaria: il settore che riproduce i macchinari (Settore K), quello che riproduce la classe operaia (Settore L) e quello che riproduce la classe capitalista (Settore S). I settori industriali invece individuano quei capitali che possiedono processi tecnologici simili o che producono merci che hanno funzioni e aspetti simili.
A questo punto la merce è prodotta e il capitale si divide nei suoi 3 settori: una parte del reddito generato torna indietro a ricomprare il capitale necessario per i cicli di produzione successivi (Settore K); un’altra costituisce l’insieme delle merci comprate attraverso redditi da lavoro, e che quindi riproduce la classe operaia (Settore L); e infine l’ultima parte costituisce i profitti aggregati (il Settore S) che mantiene in piedi la classe capitalista.

Attraverso lo scambio di merci nel mercato dei consumi il profitto viene realizzato e si ritorna con un valore del capitale maggiore di quello investito in precedenza, ovvero la fase D’.


Ognuno dei passaggi all’interno del circuito del capitale è mosso dal denaro, ovvero la merce universale. Se è il lavoro a produrre tutte le merci e queste si scambiano con quella universale, ovvero il denaro, significa che ogni centesimo che vediamo girare nell'economia è prodotto dal lavoro. No Work, No Money.


Il mercato invece è il fluido del circuito del capitale, all'interno del quale circolano merci e denaro.


Attraverso i prezzi (che vedremo subito dopo) e lo scambio economico, il mercato è un processo di feedback loop che permette di mandare avanti la produzione assicurandosi che le risorse consumate in essa siano riprodotte dopo la vendita delle merci.

In poche parole esso assorbe un continuo flusso monetario da consumatore a produttore e da capitalista a lavoratore per poter continuare il ciclo di produzione, consumo e riproduzione.

Parliamo dunque di un agente passivo, in cui le contraddizioni della produzione vengono propagate nei processi di distribuzione.

Eppure per reggersi in piedi ha costante bisogno dell’intervento dello Stato che crea le infrastrutture pubbliche e le regole di scambio, stampa la moneta necessaria a supportarlo e si accolla il costo sociale del suo mantenimento.


Finora abbiamo parlato del capitale in generale, ovvero un'entità impersonale, non-identificabile che rappresenta la sintesi degli impulsi profondi della società capitalistica. Questa è un'astrazione logica che ci permette di condensare la pluralità di logiche, dinamiche, interessi economici e processi sociali che caratterizzano il capitalismo.


Il capitale in generale si divide in miriadi di capitali singoli, quelli concretamente operativi all'interno di una specifica azienda.

La relazione tra questi capitali singoli è di tipo competitivo: i capitali singoli sono impegnati costantemente in una guerra fratricida per aggiudicarsi sempre più quote di mercato. La famosa “competizione” invocata dagli economisti permea ogni aspetto della vita sociale.

Ci sono tanti metodi, strategie e tattiche con cui un capitale singolo può vincere questa guerra, ma c'è solo un aspetto che realmente conta nel lungo periodo: i costi.

L'azienda che spende di meno nel riprodurre i suoi input di produzione è quella con più chance di vittoria nella guerra di posizione tra imprese.


Attraverso la competizione, il capitale generale possiede un regolatore che gli permette di selezionare i capitali singoli più produttivi, ovvero quelli in grado di contribuire maggiormente all'accumulazione di sé.

La tensione a investire nei settori più redditizi è l’impulso che sostiene questa delicata operazione di selezione del capitale in generale.

Più alti i profitti generati a parità di investimento – in gergo tecnico “ritorno sul capitale” o “saggio di profitto” – più chance di sopravvivenza per il capitale singolo.


s (ritorno sul capitale) = S/(L+K)


Il mercato, la competizione e il circuito del capitale sono concetti e astrazioni logiche che ci permettono di comprendere bene i processi di circolazione del capitale. Essi compongono la parte più dinamica del sistema, dove viaggiano le contraddizioni accumulate dal conflitto d’interesse nei luoghi della produzione.

V.

Il Sistema Planetario dei Prezzi

Proprio i processi di azione e retroazione generati dalla competizione mostrano bene la natura sistemica dell'economia. La competizione mette in moto dinamiche non solo involontarie, ma del tutto indesiderate dai capitalisti stessi, producendo effetti opposti delle intenzioni degli investitori.


Prendiamo due settori: il Settore A, che ha un ritorno sul capitale maggiore della media, e il settore B, che invece ha un ritorno sul capitale minore della media. Sotto la spinta della competizione, gli investimenti saranno attratti dal Settore A, che promette bene in termini di profitti generati. Viceversa il Settore B vedrà una fuga di investimenti.

Attraendo nuovi investimenti il Settore A vede un aumento della domanda degli input (K+L ↑) che ne alza il prezzo e simultaneamente una competizione più agguerrita per la stessa fetta di mercato, che abbassa i margini di profitto (S ↓). Quindi il ritorno sul capitale (S ↓/L+K ↑) si riabbassa. Viceversa per il Settore B.

Gli stessi capitalisti che hanno investito nel Settore A in quanto più redditizio, sono la causa che ha portato alla diminuzione della redditività di quel settore.

La sete di profitto dei padroni si rivolta contro loro stessi.

Ancora una volta è evidente che il sistema operi su un livello superiore rispetto alla volontà individuale.


Questi effetti della competizione creano una situazione in cui il ritorno sul capitale tra i vari settori industriali è in un equilibrio dinamico, attorno ad una media comune. In qualche momento un settore supera la media e un altro scende al di sotto, ma tutte queste variazioni si compensano tra di loro e nel tempo.

Se la redditività di ogni settore tende ad una media comune significa che ogni ora di lavoro produce circa la stessa quantità di valore economico.


Il tempo impiegato nella produzione è dunque l'unità di misura più profonda della ricchezza a disposizione della società. Meno tempo si lavora, a parità di valore economico creato, più la società è ricca.

Da un punto di vista capitalistico però, più aumentano le ore di lavoro, più profitti vengono generati, in quanto si aumenta la durata nel tempo dello sfruttamento della classe operaia. Dunque la ricchezza sotto forma di capitale ha un preciso incentivo ad aumentare il proprio volume a discapito della ricchezza sociale.


Ricordiamocelo ogni volta che qualche forza politica si oppone alla diminuzione delle ore di lavoro: questi politici fanno gli interessi della classe al potere e della sua ricchezza sottoforma di capitale.


Il sistema planetario dei prezzi emerge proprio dalla correlazione tra le ore di lavoro e la ricchezza prodotta.

I prezzi rappresentano le informazioni necessarie che orientano il capitale nelle sue decisioni di investimento. Sono l'espressione monetaria del valore e al tempo stesso captano la scarsità relativa di una merce rispetto ad un'altra.


Secondo l'economia mainstream, le imprese sono price-takers, ovvero subiscono qualsiasi prezzo arrivi dal mercato, tramite l'incrocio della domanda e dell'offerta. Ma, ancora una volta, si tratta di guardare il dito e non la luna.

Domanda e offerta sono la superficie dell'economia, dietro la quale si celano rapporti economici ben più profondi.


I prezzi sembrano variabili casuali, il risultato di infinite interazioni sul mercato, aggiustamenti dal management, qualità delle supply-chains ecc.... Ma ci sono forze ben riconoscibili che li determinano.

Innanzitutto le imprese sono price-makers: stabilire un prezzo piuttosto che un altro è una conscia decisione del capitalista. Questa decisione però trova dei vincoli, delle forze e delle costrizioni che emergono dai meccanismi del sistema. Dunque le imprese decidono il prezzo, ma non lo determinano: provano ad indovinare quello corretto, che però emerge da processi oggettivi.


Questi processi formano il sistema dei prezzi. Il sistema dei prezzi di una qualsiasi merce A è scomposto in 3 parti.

In primis troviamo il valore, che esplicita la quantità di lavoro speso nella produzione di un'unità di A (quantità espressa in ore lavorative). Dopodiché troviamo i prezzi di produzione che gravitano attorno al valore a seconda dell'intensità di capitale dell'industria che ha prodotto la merce A.

I prezzi di produzione sono l'espressione monetaria del valore, ovvero a quanto denaro equivalgono le ore di lavoro spese per la produzione di A.


Infine, in superficie, troviamo i prezzi di mercato, che gravitano attorno ai prezzi di produzione. Solo in questo momento entrano effettivamente in gioco la domanda e l’offerta: se la prima supera la seconda, il prezzo di mercato è al di sopra del valore (e del prezzo di produzione corrispondente) e viceversa.

I prezzi delle merci che vediamo al supermercato si compongono di questi 3 movimenti. La stella polare che determina i vincoli entro i quali si formano i prezzi rimane però il valore, ovvero la misura delle ore di lavoro spese per produrre la merce in questione.


Ecco perché ci piace parlare di Sistema Planetario dei Prezzi.

II.



Nella prima parte di questo articolo per la Teoria per il 99%, abbiamo parlato dei processi impersonali del capitalismo partendo da un’impostazione critica e sistemica.

In particolare, abbiamo posto l’accento sui processi più oggettivi del sistema, come l’incentivo al profitto che agisce come pulsione inconscia, il circuito del capitale, la competizione e i meccanismi di mercato, che propagano questa pulsione in tutta l’economia, e il sistema planetario dei prezzi, che mette in evidenza i due centri di gravità su cui ruotano attorno i prezzi di mercato.


In questa seconda parte invece vogliamo porre l’accento su quei processi che invece sono direttamente toccati dalla lotta di classe, ovvero i processi soggettivi.

Vedremo appunto l’intricato rapporto tra la lotta di classe e lo sviluppo tecnologico, le crisi economiche e le dinamiche dell’occupazione e della “popolazione in eccesso”.


I processi soggettivi, che dunque hanno a che fare con la resistenza e l’opposizione attiva delle classi oppresse, sono l’altra faccia del motore del sistema. Le lotte direzionano diversi processi da una parte o dall’altra a seconda dei rapporti di forza reali tra lavoro e capitale: senza le lotte il sistema economico marcisce; ma quando esse strabordano il sistema crolla su sé stesso.

In mezzo a questi due estremi si sviluppa la componente soggettiva del sistema.

I.

Il Perverso Rapporto tra Capitalismo, Competizione e Sviluppo Tecnologico

Non ci si può girare molto intorno: il capitalismo è l'unico sistema finora esistito ad aver garantito un ritmo incessante di innovazioni tecnologiche. Da un punto di vista meramente produttivo, nessun sistema precedente ad esso si è anche solo avvicinato a questa potenza.


“La borghesia è stata la prima a mostrare ciò che l'attività dell'uomo può realizzare. Ha compiuto meraviglie che superano di gran lunga le piramidi egizie, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; ha condotto spedizioni che hanno messo in ombra tutti gli esodi di nazioni e le crociate precedenti” Karl Marx, Manifesto del Partito Comunista.

L'intricatezza dell'apparato produttivo non può che lasciare affascinati anche i suoi peggiori critici. Marx, ma non solo, non si tirò mai indietro quando si trattava di lodare le potenzialità produttive ed emancipatorie liberate dal capitalismo.


Fu proprio un economista sovietico infatti, Kondratiev, a sistematizzare l'andamento del progresso tecnologico del capitalismo.

Come la maggior parte delle variabili economiche in un'economia di mercato, anche l'andamento del progresso tecnologico procede ad ondate: periodi di creatività esplosiva e di tecnologie nuove che si alimentano l'un l'altra si alternano a periodi di stagnazione e flessione dei processi innovativi tecnologici.

Kondratiev Waves.

È innegabile che, nel capitalismo, la forza motrice di questo processo sia la competizione: chi azzecca per primo l'investimento nella tecnologia giusta fa crollare i suoi costi, godendo di un periodo di extra-profitti.

Infatti, la grande guerra fratricida per abbassare i costi di produzione procede a salti: c'è sempre un progressivo abbassamento dei prezzi in sottofondo, ma sono le grandi trasformazioni tecnologiche a dare un boost a questo processo.

Spesso una merce costa 100 euro per decenni, poi si forma una nuova tecnologia e questo prezzo nel giro di un paio d'anni crolla a 30-40 euro.

La competizione dunque mantiene alta la tensione dei capitali singoli a inventare nuove tecnologie e ad assicurarsi di arrivare per primi alla situazione di crollo dei costi di produzione.


Questo è il processo chiamato "Distruzione Creativa", coniato dall'eclettico economista tedesco Schumpeter: per potersi affermare, una nuova tecnologia (o un'ondata creativa) ha bisogno di distruggere i capitali singoli, o i settori industriali, incapaci di stare al passo col progresso tecnologico.

Insomma, sembra che ce l'abbiamo fatta: abbiamo trovato il miglior incentivo produttivo. Ma questa è solo una parte della storia.


L’idea di "Distruzione Creativa" è così affascinante che anche l'Approccio Mainstream ne fa uso, ma ovviamente in modo superficiale, come se fosse solo un processo tecnico che ripulisce il sistema da metodi di produzione antiquati.

Secondo noi questo concetto va ampliato in quanto componente strutturale delle dinamiche del capitalismo. Con una mano il capitale costruisce e crea; con l’altra cancella e distrugge: questo è ciò che intendiamo con Distruzione Creativa in senso strutturale.


Com’è possibile che lo stesso processo che crea nuova ricchezza, nuove forze produttive, è lo stesso che crea sprechi? Spieghiamolo con un esempio.

Se vogliamo produrre un computer e siamo in 3 abbiamo tante modalità potenziali con le quali farlo. Possiamo metterci in comune, usare delle risorse condivise e produrre insieme il computer; oppure, ognuno di noi può creare il suo impianto produttivo, comprare la sua forza-lavoro e produrre il suo computer specializzato.

Quello migliore vince, e probabilmente è anche migliore di quello prodotto in comune; ma, nel farlo, sono state sprecate il doppio delle risorse produttive rispetto a quelle impiegate per produrre quello comune.


Con un tale risparmio si sarebbe potuta pagare tranquillamente la ricerca per far arrivare il nostro computer comune al livello di quello che ha vinto l'ipotetica competizione tra noi 3.

Insomma, ciò che la competizione crea da una parte (il computer più efficiente), viene distrutta dall’altra (spreco di risorse).


C'è un altro problema nella descrizione di "Distruzione Creativa" approssimativa data dalla Teoria Mainstream e in generale quando si parla del rapporto tra capitale e tecnologia. Ci si dimentica di sottolineare che quello che i capitalisti vogliono massimizzare non è la ricchezza sociale, ma i profitti che realizzano. Una differenza che, come spiegato nella Parte I, non è da poco.


Lo sviluppo tecnologico, infatti, è solo uno dei tanti modi per abbassare i costi di produzione e aumentare i profitti e lo fa aumentando la produttività del capitale stesso. Esso però non è particolarmente economico: richiede tempo, sperimentazioni, rischi d'impresa alti....

Ci sono tanti altri modi, più veloci e meno costosi, per abbassare i costi di produzione e dunque aumentare i profitti: riduzione dei salari, precarietà contrattuale, aumento delle ore lavorative, licenziamenti di massa....

Tutte queste tecniche non aumentano le forze produttive, non migliorano l'efficienza produttiva: l'unica cosa che fanno è diminuire il costo della forza-lavoro attraverso manovre economico-politiche.


Vediamo nel concreto l’incentivo profondo dietro l’uso della tecnologia nei processi di produzione.

Ogni merce può essere prodotta in diversi modi, ovvero attraverso diverse combinazioni degli input di produzione. La stessa merce può essere prodotta da 1 macchinario e 100 operai, 2 macchinari e 50 operai, 4 macchinari e 30 operai oppure 6 macchinari.

Su quale base viene scelta l'effettiva combinazione? Dal prezzo relativo tra macchinari e operai, tra K e L. Se K costa di più rispetto a L, per produrre quella merce si userà la prima o la seconda combinazione, con poca tecnologia coinvolta. Se K costa meno rispetto a L, l'investimento viene attratto dai macchinari, più economici rispetto agli operai, dunque in più tecnologia.


Da cosa dipendono questi prezzi relativi tra macchinari e lavoro?

Se il costo dei macchinari è determinato dal lavoro necessario per produrli, il costo del lavoro dipende dalla capacità effettiva della classe operaia di negoziare salari più o meno alti.

Dunque sono le lotte operaie sul posto di lavoro a forzare la mano al capitale, a costringerlo a migliorare le sue performance, a modernizzare il suo apparato produttivo, investire nella tecnologia e liberare le sue reali potenzialità produttive.

Il capitalismo usa una mano per aprire le porte al regno dello sviluppo tecnologico, il regno dell'abbondanza e del minimo lavoro, mentre con l'altra continua a tirare il freno a mano per reprimere le reali potenzialità del mostro che esso stesso ha creato.


Infatti, solo in una società senza profitto si sviluppa la massima propensione allo sviluppo tecnologico. Se tutto il prodotto del lavoro tornasse alla classe operaia, l'unico modo per aumentare la ricchezza sociale sarebbe tramite l'avanzamento tecnologico: non c'è nessun salario da abbassare per far alzare i profitti, ma solo redditi comuni da massimizzare attraverso la modernizzazione dell'apparato produttivo.


Il vero motore dello sviluppo tecnologico è la lotta di classe perché direziona le forze della competizione lontane dall'abbassamento dei salari e verso il miglioramento delle tecniche e delle modalità di produzione e di tecnologia impiegata.

Ricordiamoci di questo ogni volta che un economista liberale blatera al tempo stesso di abbassare il "costo del lavoro" e "sviluppare la tecnologia": non si può avere due piedi in una scarpa.


La competizione, inserita nelle dinamiche di profitto, è un processo che libera forze produttive nell'esatto momento in cui produce spreco su larga scala ed è questo a nostro parere il vero significato profondo del processo di "Distruzione Creativa".

È un processo che si propaga per tutto il sistema economico. Il capitalismo usa una mano per fornirci gli schizzi di un nuovo mondo possibile, fatto di abbondanza e tecnologie all'avanguardia, mentre con l'altra reprime questi processi per potersi mantenere in piedi.


Solo una lotta di classe esplosiva, in grado di riprogrammare le istituzioni sociali e superare il capitalismo, può aprire le porte verso il massimo sviluppo tecnologico.

II.

Crisi e Ciclo Economico

I conflitti d'interesse nei luoghi della produzione, la competizione generalizzata e il processo di distruzione creativa sono la causa dell'instabilità tipica del capitalismo.


Se comparato a sistemi precedenti come il feudalesimo e lo schiavismo, infatti, il capitalismo sprigiona delle forze economiche così intense che spesso rischiano di far crollare l'intero apparato produttivo.

La dinamicità, malleabilità ed elasticità del capitale, di cui abbiamo parlato nella Parte I, possono essere interpretate come meccanismi di difesa: sfiancato dalla continua instabilità autogenerata il sistema ha sviluppato nel tempo un'attitudine dinamica e capace di adattarsi ad ogni situazione.


Questa instabilità procede di sottofondo, viene tenuta a bada e raffreddata da diversi processi e controtendenze: ma per quanto il capitale provi a stabilizzare sé stesso, le sue contraddizioni continuano a ribollire in sottofondo fino a che non esplodono.


L’instabilità si riversa in primis nell'accumulazione di capitale che assume un andamento irregolare e non-lineare. Il processo di accumulazione è intervallato da crisi ricorrenti: in economia si usa il termine di boom-and-bust cycles, in italiano "ciclo economico".

Sulla questione delle crisi ne parliamo in modo approfondito in questa "Dispensa in Movimento", in particolare dalla Sezione II del Capitolo "Analisi" in poi. In ogni caso riportiamo anche qua i concetti chiave.


Come abbiamo detto nel capitolo precedente, con una mano il capitalismo crea, con l'altra distrugge. I processi, dinamiche e logiche che portano all'aumento del volume produttivo sono gli stessi che causano le crisi economiche.


I periodi di crisi si riversano anche nella politica: ricorrenti crisi politiche si sprigionano e i rapporti di forza sociali e istituzionali crollano su loro stessi periodicamente.

La politica infatti è la cristallizzazione dei rapporti di forza tra le classi sociali che costellano la società capitalistica. Se crollano questi rapporti di forza, crollano anche gli equilibri tra le istituzioni che ne rappresentano la sintesi politica.


Oltre ad essere un risultato inevitabile dell'instabilità del capitale, la crisi economica ha anche una funzione importantissima all'interno del sistema: spazzare via gli ostacoli che si oppongono all'ulteriore accumulazione di capitale.

Questi ostacoli possono essere sia esterni – delle lotte particolarmente intense che bloccano la produzione o che boicottano il mercato – oppure interni al capitale. Spesso una crisi profonda, detta anche strutturale, è provocata simultaneamente da ostacoli interni (cause oggettive) e da quelli esterni (cause soggettive).

Vediamone una alla volta.


Per approfondimenti accademici, fate riferimento ad Anwar Shaikh, Theory of Crisis.

La causa oggettiva della crisi è multistrato: in superficie abbiamo piccole recessioni ricorrenti causate dal "caos" del mercato; più in profondità abbiamo crisi che si presentano nel medio periodo causate da contrazioni della domanda effettiva, ovvero della quantità di reddito disponibile per comprare le merci (di solito per via di debiti troppo eccessivi); infine troviamo le crisi più profonde, quelle strutturali, causate dall'inevitabile crollo del saggio di profitto.


Ogni crisi strutturale, che dunque tocca nel profondo il sistema, ha il compito di spazzare il "capitale in eccesso", ovvero poco produttivo e redditizio rispetto al resto.

È il momento, come dice Marx, in cui il capitale generale "fa dà giudice" dei capitali singoli, decidendo quali di questi si salvano e quali invece vengono risucchiati dal vortice distruttivo della crisi.

Una volta distrutta una parte di sé, il capitale ha abbassato i suoi costi meno produttivi, il saggio di profitto si rialza e l'accumulazione riprende spedita.


La componente oggettiva, dunque, determina il contesto e il campo delle possibilità entro il quale si articola una crisi. Ma il modo specifico in cui essa si articola effettivamente dipende dallo scontro delle classi sociali, ovvero dalla sua componente soggettiva.


Questa componente determina in primis l'intensità di una crisi: gli scioperi degli anni '70, ad esempio, hanno decisamente accelerato l'avvento della crisi economica del '73 e hanno provocato un accesissimo conflitto con la classe al potere, che è uscita vincitrice dallo scontro solo a metà degli anni '80 con la vittoria di Thatcher sullo sciopero dei Minatori nel 1984.


Al tempo stesso la lotta di classe determina chi paga i costi della crisi: da una parte la classe al potere si serve dell'apparato repressivo dello Stato (le forze dell'ordine) per reprimere ogni mobilitazione a difesa di salari e occupazione; dall'altra la classe operaia difende il suo potere d'acquisto oppure, in circostanze più rivoluzionarie, prova a sfruttare la crisi per impadronirsi di pezzi sempre più strategici dell'apparato produttivo.


Le fasi di accumulazione e di crescita sostenuta durano in genere due-tre decenni, e sono seguite di solito da crisi strutturali che durano uno o due decenni. In quei due-tre decenni di accumulazione, si creano degli equilibri istituzionali che provano a sostenere e stabilizzare il boom economico.

C'è un'altra dinamica però che viene spesso sottovalutata quando si analizza lo scontro sociale in contesti di crisi. Le crisi strutturali sono così profonde che rompono gli equilibri istituzionali solidificati dopo decenni di relativa stabilità economica di lungo periodo. Questa rottura, questo "Shock Istituzionale" apre le fasi di transizione, in cui i vecchi equilibri di potere marciscono e i nuovi faticano ancora a svilupparsi, come affermava Gramsci.


La lotta di classe agisce soprattutto in questa indeterminatezza: nelle fasi di transizione la classe con delle organizzazioni politiche più efficaci è quella che detta i termini con cui si solidificano i nuovi equilibri di potere.

Nel Secondo Dopoguerra, ad esempio, furono le organizzazioni proletarie, socialiste e comuniste – grazie al loro contributo fondamentale nella sconfitta del nazifascismo – a forzare la mano e influire sugli equilibri di potere tra capitale e lavoro che hanno caratterizzato il compromesso socialdemocratico.

Il neoliberismo invece, che nasce negli anni '80, è figlio della ripresa del controllo totale del capitale sui processi di produzione, in seguito alla sconfitta delle organizzazioni operaie di quel decennio.


I nuovi paradigmi politici prendono la loro forma specifica durante la fase di transizione: la classe sociale che tira di più la corda inclina il campo politico dalla sua parte per tutto il periodo di relativa stabilità economica successiva.

In questo periodo di crollo dell'Ordine Neoliberale dovremmo seriamente tenere a mente questo processo importantissimo.


L'instabilità generale del capitalismo genera dunque il ciclo economico, ovvero l'alternarsi di fasi di crescita sostenuta (boom), rallentamento/stagnazione, crisi strutturale (bust), shock istituzionale e nuovo boom economico.

Avere la capacità di riconoscere in quale fase del ciclo economico ci troviamo è fondamentale per poter coordinare lo scontro politico e la lotta di classe.

A seconda della fase in cui ci troviamo, il capitale mostra dei nervi scoperti: una lettura adeguata del ciclo economico ci permette di affondare la lama nelle piaghe politiche della classe al potere.

III.

Salari, Occupazione e “Popolazione in Eccesso”

I fenomeni dell'occupazione della disoccupazione e quindi la conseguente differenza tra popolazione occupata e quella "in eccesso" sono un ulteriore esempio lampante delle dinamiche impersonali del capitalismo.

Ogni capitalista assume solo una piccolissima porzione dell'intera forza-lavoro: l'occupazione complessiva non può che procedere per binari che vanno oltre la sua volontà esplicita.


Il processo è talmente impersonale che le migliori previsioni sull'andamento dell'occupazione (se si considerano invariate le politiche monetarie e quelle sul lavoro), arrivano da modelli economici che ricalcano in tutto e per tutto quelli dei biologi che studiano il rapporto tra predatori e prede.


Mettiamo subito da parte i libri di economia: sono totalmente inutili in questo contesto. Partono dal presupposto che il capitalismo tenda automaticamente alla piena occupazione.

Se non la si raggiunge significa che o alcune persone sono troppo "viziate" e vogliono guadagnare di più del salario da piena occupazione, oppure che ci sono dei sindacati e politici cattivi che tengono artificialmente in alto il livello dei salari impedendo ai buoni imprenditori di assumere ulteriore forza-lavoro.

Più che mostrarle per le barzellette che sono, non possiamo fare molto altro davanti a delle pseudo-teorie che mostrano apertamente e liberamente un atteggiamento classista e ridicolo.


L'approccio critico-sistemico imposta il problema in modo diverso.

Ci sono due forze che tendono la corda dell'occupazione. Da una parte c'è sicuramente un incentivo ad aumentare l'occupazione: se più persone vengono sfruttate, vengono realizzati più profitti.

Dall'altra c'è un incentivo a ridurre l'occupazione: più persone disoccupate competono per lo stesso lavoro, più si abbassa il livello dei salari.


Come si risolve la tensione generata da queste due corde? L'occupazione si stabilizza attorno ad una media oltre il quale il costo di una nuova assunzione supera il prodotto generato da essa stessa. Infatti più forza-lavoro viene impiegata, più diventa "ridondante", ovvero ogni unità aggiunta produce un valore aggiunto inferiore. In gergo tecnico si dice rendimento decrescente della forza-lavoro.

Ad un certo punto questo valore aggiunto scende al di sotto del salario sganciato dal capitalista: quella è la soglia oltre la quale l'occupazione non può più aumentare, pena una diminuzione dei profitti.


Ovviamente, siccome sono processi lasciati ai meccanismi di mercato, le due corde continuano a tirare l'occupazione reale un po' al di sopra e un po' al di sotto di questo valore che però funziona da centro di gravità. Nessun capitalista, infatti, decide esplicitamente di regolare questo meccanismo: questo processo emerge dalla somma aggregata delle loro infinite scelte guidate solo dall'incentivo al profitto.

Quello che ci interessa è che la disoccupazione è fisiologica nel capitalismo: un contesto di piena occupazione finirebbe per provocare una spirale verso l’alto dei salari, andando a rosicchiare ogni margine di profitto.

Ma da cosa dipende questa soglia? Perché negli anni '60-'70 era possibile avere una situazione di quasi piena occupazione, mentre oggi anche nel cuore dell'Occidente, la parte del Mondo che beneficia di più dal capitalismo, la disoccupazione rimane in media al 10-15% o addirittura al 20-25%?

È qui che entra in campo la parte soggettiva: è lo scontro tra le classi sociali che, cristallizzandosi nelle politiche monetarie e del lavoro, finisce per spostare più in alto o più in basso questa soglia.


Nell'era del compromesso socialdemocratico, durante il Secondo Dopoguerra, i Movimenti Operai erano in grado di forzare la mano ai padroni e questo si rifletteva nelle politiche monetarie espansive e nella pianificazione pubblica come metodo per mantenere alta l'occupazione.

Oggi invece, con una classe lavoratrice ridotta a pezzi, il capitale ha pieno dominio nello stabilire le condizioni dell'occupazione, che infatti è decisamente bassa.


In ogni caso la piena occupazione è strutturalmente insostenibile per le logiche di profitto: il capitale ha costante bisogno di una "popolazione in eccesso" non occupata da poter usare come leverage economico e politico contro la classe operaia.


O profitto, o piena occupazione: non c'è spazio per entrambi.

Conclusione


L’approccio sistemico e critico dell’economia politica è una lente importantissima per comprendere le forze strutturali che condizionano e plasmano la nostra vita quotidiana.

Ma non solo: lo studio della cibernetica del capitale è fondamentale per ogni Movimento che ha seriamente intenzione di superare lo Status Quo e impostare la base materiale e concreta di una società libera.

Così come la società esistente si riproduce attraverso processi che vanno oltre la volontà delle persone, anche le trasformazioni sociali si sviluppano parzialmente alle spalle delle persone coinvolte.


Nessun Movimento ha mai cambiato il mondo perché lo voleva fortemente: non è la volontà a cambiare la società, ma la capacità di saper surfare tra le contraddizioni del sistema e usarle come leverage per favorire gli interessi delle classi oppresse.


Trasformare la società implica propositività: significa introdurre soggettivamente e coscientemente nuove dinamiche al sistema nel tentativo di farlo andare in cortocircuito.

Ma una volta che la lotta modifica il corso degli eventi, ponendo nuove sfide al capitale, queste dinamiche escono fuori dal nostro controllo diretto e vengono inserite nei processi sistemici fondamentali.

Senza una mappa cognitiva di queste complesse dinamiche sistemiche saremo sempre in balia degli eventi, senza strumenti per comprendere l’effetto concreto che le nostre lotte hanno sull’intera economia.


Andare oltre la superficie del sistema per addentrarsi nella sua profonda cibernetica, ci aiuta a padroneggiare e ad affinare un approccio strategico alla politica. Per manipolare il corso degli eventi e gestire quella che Lenin chiamava “la guerra di posizione” contro la classe al potere bisogna avere ben chiari in mente i tipi di relazione che intercorrono tra le varie componenti della struttura economica.


Una creatività strategico-sovversiva è ciò che sta mancando ai Movimenti globali emersi dagli anni ‘90 in poi. No-Global prima, Occupy e i Movimenti per la Giustizia Climatica dopo, non hanno brillato per la loro capacità di forzare la mano alla classe al potere.

Ripartire da una critica all’economia politica 4.0 potrebbe essere un inizio verso la scoperta di nuove forme di conflitto in grado di smuovere le acque e riconvertire l’apparato produttivo sulla base delle esigenze sociali, territoriali ed ecologiche.