20 Ottobre 2024
Leggere
Salario, Prezzo,
Profitto
Come recuperare degli strumenti chiari, semplici e d’impatto per criticare l’economia capitalistica.
#marx
#economia
Salario, Prezzo, Profitto è un pamphlet di economia politica estratto da due conferenze tenute da Karl Marx nel lontanissimo 1865, all’Associazione Internazionale degli Operai.
Con la scusa di ribattere sulle idee del cittadino Weston (un altro organizzatore della classe operaia), Marx abbozza i primi schizzi della sua mastodontica opera di critica economica. Dall'analisi del valore a quella dei prezzi, dal concetto di plusvalore a quello di sfruttamento, dalla descrizione effettiva dei salari al loro rapporto inversamente proporzionale con i profitti, questo libricino contiene il cuore della teoria economica marxista, riassumendo i concetti che Marx analizzerà a pieno nella sua mastodontica opera, “Il Capitale”.
A questo punto, la domanda sorge spontanea: cosa ce ne dovrebbe fregare di un libro economico scritto più di 150 anni fa?
La società che osserva Marx risulterebbe illeggibile alla maggior parte di noi, sia nel bene che nel male. Nel 1860, tante tecnologie che oggi diamo per scontate non esistevano, e lo standard di vita operaio era imparagonabile a quello odierno; al contempo, la distribuzione delle ricchezze era decisamente meno diseguale della nostra, e la classe operaia organizzava forme di scontro sociale, contestazione politica e solidarietà interna inimmaginabili nel nostro presente.
Questa apparente distanza tra il mondo in cui viveva Marx e quello in cui viviamo noi ha portato fin troppe persone (sia a destra che a sinistra) a scartare la maggior parte delle sue critiche, e al massimo a sfruttare una manciata di citazioni specifiche a seconda della convenienza.
Eppure, più si va avanti nella lettura di questo breve (ma denso) pamphlet, più la distanza tra Marx e noi si fa più sottile, fino a che quasi non ci si dimentica del tutto che tra ci separano 150 anni di storia.
In meno di 100 pagine, il filosofo di Treviri affonda i denti nel cuore delle teorie economiche borghesi e, nel frattempo, costruisce l'impianto logico e analitico della sua alternativa teorica.
Il genio critico di Marx è in grado di spogliare della loro presunta scientificità tutte le argomentazioni economiche principali della sua epoca, per poi mostrarle al mondo per quello che sono – giustificazioni ideologiche al servizio della classe al potere.
Al tempo stesso, la sua comprensione del sistema economico è così profonda e lungimirante che riesce a riportare le teorie mainstream alle loro caratteristiche fondamentali; è vero, la polemica parte dalle parole di Weston, ma la critica va al cuore delle sue logiche sottostanti. E le logiche di cui parla Marx vivranno finché vive il sistema economico odierno.
Più si legge Salario, Prezzo, Profitto, più si ha l'impressione che Marx stia criticando la dottrina di un qualsiasi professore odierno di economia, piuttosto che quella specifica del "Cittadino Weston".
La descrizione che fa Marx del capitalismo è tutt’ora impeccabile. Il fatto che l’abbia scritta 150 anni fa importa poco, perché la sua analisi è interamente concentrata sulle logiche profonde del sistema, sulle sue condizioni di esistenza. Tolte tutte le apparenze, le forme specifiche del capitale e la cultura in superficie, che aspetto ha l'inconscio del capitalismo? Quali sono le logiche che lo mettono in moto? Che cosa rimane, quando l’abbiamo vivisezionato e spogliato di tutti i suoi aspetti superficiali?
Ovviamente, per rispondere a tutte queste domande dobbiamo aspettare il Capitale, un’opera incompleta perché Marx – come ogni rockstar – è morto prima di poterla finire.
Noi però non siamo perfezionisti. Al di là di eventuali citazioni decontestualizzate, per noi l’importante del marxismo è il suo approccio metodologico e i suoi strumenti teorici.
Questo libricino, dunque, ci può aiutare a decostruire l'ideologia economica mainstream (vedi la scuola di pensiero marginalista), e a criticare il sistema senza cadere nel "finto radicalismo" di chi "accetta le premesse ma prova ad evitare le conclusioni" (vedi la scuola di pensiero keynesiana).
Una ventata d'aria fresca per chi vorrebbe studiare criticamente l'economia, e invece si ritrova a dover ripetere la merda economica che viene vomitata oggi nelle Università.
Prima di toccare i punti principali del libro, vorremmo fare un'ultima premessa. Marx era una persona particolarmente polemica. Secondo varie biografie e testimonianze, era uno di quei classici intellettuali col dente avvelenato che si esalta nelle discussioni accese. Questo l’ha portato a polemizzare praticamente con chiunque, lungo qualsiasi schieramento politico. Eppure, tra tutte queste polemiche Marx ha sempre scelto di valorizzare quelle che aveva con altri organizzatori della classe operaia, ad esempio Proudhon, Bakunin e, caso di questo libro, Weston. Sì potrebbe pensare a questo atteggiamento come parte del solito spirito di autosabotaggio della sinistra: invece di costruire qualcosa insieme, finiamo per litigare tra di noi. A nostro parere, però, le scelte di Marx sono guidate dalla voglia di dare alla classe operaia i migliori strumenti critici possibili, così che sia davvero in grado di mettere i bastoni tra le ruote del capitale e di imporre i suoi reali interessi nella lotta di classe. È per questa ragione che ha sempre posto l'accento sulle sue polemiche con altri organizzatori politici proletari che - consapevolmente o meno - stavano dirottando la lotta di classe in un vicolo cieco. La polemica con Weston riguarda il rapporto tra salario e prezzo. Secondo l'agitatore politico della scuola Oweniana, lottare per l'aumento dei salari è inutile; di fronte ad una mossa del genere, infatti, il capitale inizierebbe immediatamente ad alzare i prezzi delle merci, annullando l’effetto degli aumenti. La teoria politico-economica di Owen fu la fonte di riferimento principale dei primi Movimenti Operai, e li ha accompagnati alla nascita delle prime piattaforme politiche della classe lavoratrice. Ai tempi di Marx, i seguaci di Owen erano ancora tra le file egemoni del Movimento, e andare contro di loro non era affatto cosa facile. La spiccata combattività del marxismo e la convinzione di dover allontanare la classe operaia da questo tipo di teorie politiche ha fatto la differenza nel corso della Storia. Prima di Marx, gli agitatori politici proletari argomentavano apertamente contro l'aumento dei salari (come faceva Weston); dopo Marx, ogni Movimento Operaio degno di questo nome ha messo l'aumento dei salari al centro della sua piattaforma politica, e, ad oggi, anche il più moderato dei sindacalisti deve quantomeno far finta di essere d'accordo. Per Marx, solo una conoscenza profonda dei processi sistemici del capitale ci permette di impostare una lotta di classe all’offensiva, che minaccia seriamente il potere costituito. Studiare a fondo le sue dinamiche economiche vuol dire conoscere i nervi scoperti del sistema e i processi che scatena quando subisce delle modifiche imposte dalle lotte politiche. Solo in questo modo la classe operaia può insabbiare efficacemente gli ingranaggi del sistema, distruggere le sue strutture oppressive e riprogrammare le istituzioni negli interessi della collettività. La decostruzione marxista non si perde in fronzoli. In un paio di capitoli (di circa 5 pagine ciascuno), siamo già nel cuore della critica ai ragionamenti di Weston. Questo discorso tanto logico e diretto è piacevolmente condito da una lunga serie di frecciatine, disperse a piacere nei discorsi. "Qui arriviamo ad un punto cieco, se intendiamo ragionare logicamente. I sostenitori di questa dottrina non si pongono però troppi scrupoli logici." Il primissimo capitolo, in particolare, decostruisce una delle logiche più comuni dell'economia mainstream. Ogni volta che un economista non sa risalire alla causa reale di un fenomeno economico, egli lo farà dipendere dalla preferenza, la volontà o il desiderio delle persone. Peccato, però, che tutti i sistemi economici operano secondo delle logiche che vanno oltre la volontà esplicita delle persone. Sono appunto “sistemi”, ovvero un’intricata connessione di relazioni, dinamiche, meccanismi e processi sociali che emergono alle spalle degli intenti espliciti delle singole unità che interagiscono. "[Secondo il cittadino Weston] Se in un paese il livello dei salari è più elevato che in un altro, negli Stati Uniti, ad esempio, più che in Inghilterra, dovete spiegarvi tale differenza come una diversità della volontà del capitalista americano rispetto a quello inglese, metodo che semplificherebbe molto lo studio non solo dei fenomeni economici, ma di tutti gli altri fenomeni." "La volontà del capitalista consiste certamente nel prendere quanto più è possibile. Ciò che noi dobbiamo fare non è parlare della sua volontà, ma indagare la sua forza, i limiti di questa forza e il carattere di questi limiti"
Nella prossima sezione, vedremo nel concreto i principali esempi del libro. Ci renderemo presto conto dell’incredibile somiglianza tra l'ideologia economica che viene vomitata oggi nelle Università e quella formulata più di 150 anni fa. Quale concetto economico più famoso della legge della domanda e dell'offerta? Ogni economista ci ripete più o meno sempre la solita solfa: questo fenomeno dipende semplicemente dalla legge della domanda e dell'offerta. It's the economy, stupid. In realtà, questa legge viene citata fin troppo e quasi sempre a sproposito, spesso da gente che si diverte a sparare a zero dall’alto sulle rivendicazioni economiche del 99%. La legge della domanda e dell'offerta è l'emblema di un approccio economico (quello mainstream) che guarda il dito e non la luna, la superficie e non la profondità. E, di questo, Marx ci avvisa già in Salario, Prezzo, Profitto: "[...] commettereste un grave errore se ammetteste che il valore di una merce è determinato, in ultima istanza, dalla legge della domanda e dell'offerta. La domanda e l'offerta non regolano altro che le fluttuazioni temporanee dei prezzi sul mercato. Esse vi spiegheranno perchè il prezzo di mercato sale al di sopra o cade al di sotto di questo valore, ma non potranno mai spiegare questo valore" E ancora, "Nel momento in cui domanda e offerta coincidono e perciò cessano di agire, il prezzo di mercato di una merce coincide col suo valore reale" Sostenere che i prezzi dipendono dalla legge della domanda e dell’offerta significa osservare degli elementi superficiali e di disturbo, e classificarli come le componenti fondamentali del fenomeno. È come provare ad identificare la causa del movimento di un aereo partendo dall'attrito dell'aria. Le teorie economiche insegnate nelle Università sono unanimemente convinte (quasi nell'inconscio) che i prezzi siano determinati dai salari. Lo sentiamo in TV, quando l’economista di turno lamenta dall'alto prezzo del lavoro, attribuendogli la responsabilità dell'inflazione e della crisi economica. Lo sentiamo in Università, in cui in ogni esercizio di economia, in ogni spiegazione, in ogni slide, si dà semplicemente per scontato che un aumento dei salari provochi un aumento dei prezzi. E lo sentiamo anche dai Keynesiani, che si ergono a "economisti critici" nonostante accettino la superficialità mainstream, e fanno di questa relazione tra salari e prezzi un dogma. Marx non è qui con noi in un'aula universitaria, ma la sua lungimiranza gli permette di cogliere fin da subito le giustificazioni pseudo-economiche sputate dai burattini della borghesia. Più di un secolo fa, egli ci spiega il contesto all’interno del quale gli economisti borghesi hanno costruito questa falsa relazione inesistente tra salari e prezzi: "[...] Tutti i vecchi autori di economia politica, i quali sostenevano come un dogma che i salari regolano i prezzi, hanno tentato di provarlo trattando il profitto e la rendita come semplici aumenti percentuali aggiunti ai salari. Naturalmente nessuno di loro fu in grado di ricondurre a una legge economica i limiti di questi aumenti percentuali. Al contrario sembravano credere che i profitti fossero determinati dalla tradizione, dall'abitudine, dalla volontà dei capitalisti o sulla base di qualche altro metodo arbitrario e inspiegabile" A questo punto, il nostro Karl ci accompagna nella palude logica di questa argomentazione, rivelando una caratteristica costante nelle aule universitarie di economia: la circolarità dei ragionamenti. "Poiché i salari non sono altro che il prezzo del lavoro, [affermando che i prezzi delle merci sono determinati dai salari] intendiamo dire che i prezzi delle merci sono determinati dai prezzi del lavoro. Poiché il prezzo è valore di scambio [in forma monetaria] la cosa si riduce a dire "il valore della merce è determinato dal valore del lavoro". "Espresso nella sua forma astratta questo dogma si riduce a dire che "il valore è determinato dal valore" e questa tautologia significa che del valore non sappiamo nulla.” Qui, però, c’è da fare un ulteriore passo indietro. Come si definisce il costo del lavoro alto e basso? Quand'è che passa che questo passa da essere medio a alto, da medio a basso o viceversa? "Se qualcuno tiene una conferenza sul termometro e inizia a declamare di alta e bassa temperatura non insegna niente a nessuno. Egli dovrà iniziare a spiegare come vengono determinati il punto di ebollizione e di congelamento". Insomma, è evidente che il dogma dei prezzi determinati dai salari è una scusa pseudo-intellettuale tesa a forzare la mano dell'opinione pubblica, a spingere per un abbassamento dei salari senza subirne le conseguenze politiche. Okay, abbiamo capito che il dogma tra salari e prezzi non funziona. Che spiegazione alternativa ci propone Karl? Secondo lui, non soltanto un aumento dei salari non causa un aumento dei prezzi, ma, addirittura, il rapporto tra queste due variabili è inversamente proporzionale. Più sono alti i salari, più si abbassano i prezzi. Se questa dinamica ci sembra paradossale, è solo perché da più di 150 anni l'ortodossia commette lo stesso identico errore del cittadino Weston. Marx non può fare a meno di ribadire questo concetto, che solo in Salario, Prezzo, Profitto ripete quasi una decina di volte. “[...] gli operai di fabbrica inglesi (...) il cui lavoro è relativamente ben pagato, superano tutte le altre nazioni in rapporto al basso prezzo di quanto producono, mentre ad esempio l'operaio agricolo inglese, il cui lavoro è pagato relativamente male, è superato da quasi tutte le altre nazioni in rapporto all'alto prezzo di quanto produce.” “Confrontando un articolo con l'altro nello stesso Paese (...) potrei mostrarvi che (...) in media il lavoro ben pagato produce merci meno care e quello pagato male produce merci più care.” Su questo punto, Marx si diverte particolarmente a ridicolizzare gli economisti borghesi, mettendo in luce una delle tattiche più famose del nemico: profetizzare un incombente catastrofe economica per ogni singola riforma a favore della classe operaia. “Tutti voi conoscete la legge delle dieci ore e mezza entrata in vigore nel 1848. (...). Fu un aumento improvviso e obbligatorio dei salari, non in alcune industrie locali, ma nei rami principali dell'industria (...). (I) portavoce ufficiali della borghesia dimostrarono (...) che questa legge avrebbe suonato la campana a morto per l'industria inglese.” “Essi pronosticarono una diminuzione dell'accumulazione di capitale, l'aumento dei prezzi, la perdita dei mercati, la riduzione della produzione, e infine la rovina.” “Ora quale fu il risultato? (...) un aumento notevole del numero di lavoratori occupati, una caduta costante dei prezzi, uno straordinario sviluppo delle forze produttive del loro lavoro, un allargamento costante e inaudito dei mercati per le loro merci.” In realtà, è molto semplice comprendere come mai a salari in aumento corrispondano prezzi in discesa. Prendiamo in esame un capitalista qualsiasi, con un fondo di investimento di 100 euro. Il nostro capitalista deve scegliere come distribuire le sue risorse tra lavoro e macchinari. Solo quando il costo del lavoro aumenta relativamente a quello dei macchinari per il capitalista è più conveniente investire nella tecnologia. Di conseguenza, aumentano le forze produttive del lavoro e la merce risulta più facile da produrre. È così che il prezzo della merce comincia a scendere. Non è nulla di paradossale: a salari più alti corrisponde un prezzo delle merci più basso. É un risultato che emerge dalle stesse logiche di profitto. Insomma, Marx colpisce nel segno le logiche centrali delle pseudo-teorie economiche della borghesia, e le comprende in tutta la loro surreale assurdità. La dottrina economica mainstream descrive un Mondo che esiste solo nelle teste degli economisti ricchi, ed è arrivato il momento di sviluppare nuove teorie in grado di analizzare la realtà dei fatti. Dopo aver decostruito, la teoria marxista ricostruisce. Questo secondo aspetto distingue Marx dai critici di sinistra contemporanei (siano essi economisti, politologi, sociologi, filosofi o quant'altro). Invece di fermarsi ad una semplice critica, Marx inizia a delineare il profilo di un framework totale, in grado di descrivere il sistema economico in modo tanto oggettivo quanto funzionale alla lotta di classe. In Salario, Prezzo e Profitto questo modello costruttivo rimane a malapena abbozzato, ma non per questo meno risulta interessante, anzi. L’attenzione di Marx si concentra principalmente sulla Teoria del Valore-Lavoro. Nelle aule universitarie, questa teoria forse si affronta nei primi mesi di corso, attraverso giusto un paio di slide che la rigettano in quanto “antiquata”. Dopodiché, nessuno si azzarderà a menzionarla una seconda volta. Nonostante sia la base teorica su cui poggia ogni elaborazione critica dell'economia politica – o forse esattamente per questa ragione – oggi la Teoria del Valore-Lavoro è tendenzialmente ignorata dagli economisti. Eppure storicamente, questa teoria è stato uno strumento fondamentale non solo per Marx, ma anche per gli amatissimi Adam Smith e David Ricardo e per diversi keynesiani di sinistra. Il pregio di questa teoria sta nell’analizzare il valore oltre il suo elemento superficiale (le preferenze soggettive delle persone), concentrandosi invece sull’elemento strutturale profondo (il lavoro). "Poiché i valori di scambio delle merci rappresentano solo le loro funzioni sociali e non hanno niente a che fare con le loro proprietà naturali, dobbiamo anzitutto chiederci: qual è la sostanza sociale comune a tutte le merci? E' il lavoro. Per produrre una merce bisogna impiegarvi o incorporarvi una quantità determinata di lavoro sociale" "Una merce ha un valore perché è la cristallizzazione del lavoro sociale. Il valore di una merce sta a quello di un'altra come la quantità di lavoro fissato nell'una sta alla quantità di lavoro fissato nell'altra" La stretta connessione tra valore e lavoro non è uno stratagemma atto a facilitare i calcoli o una facile scorciatoia per fini politici, e non è neanche un fenomeno naturale, immutabile o trans-storico. Piuttosto, è una conseguenza delle caratteristiche principali del capitalismo. "L'uomo che produce un oggetto per il suo proprio uso immediato crea un prodotto, non una merce. Per produrre una merce un uomo non deve limitarsi a produrre un articolo che soddisfi un qualsiasi bisogno sociale, giacché il suo stesso lavoro dev'essere una parte integrante della somma totale di lavoro impiegato dalla società. Dev'essere subordinato alla divisione del lavoro all'interno della società." "Se consideriamo le merci come valori le vediamo esclusivamente sotto questo punto di osservazione, ovvero come lavoro sociale realizzato, fissato o cristallizzato." La teoria del valore-lavoro non è utile a descrivere fenomeni economici precedenti al capitalismo, né sarà capace di descriverne di successivi. Essa diventa valida solo quando è presente un’alta divisione del lavoro unita ad una mobilità del capitale oltre i confini nazionali e settoriali. È il capitalismo a dar vita a questa legge economica, non viceversa. Per quale ragione, dunque, l’economia mainstream rigetta la teoria del valore-lavoro? Perchè, ad una prima occhiata, non c’è effettivamente un nesso diretto tra quanto lavoro viene impiegato in una merce e quante persone comprano questa merce. Una persona non spende tanto o poco su una merce in base a quanto lavoro pensa sia stato impiegato al suo interno. Dunque questo escluderebbe un collegamento proporzionale tra lavoro e ricchezza. L’abbiamo capito: se una relazione economica non è chiaramente visibile in modo superficiale, gli apologeti del capitalismo pensano che sia inesistente. Addirittura, ci dicono, se la teoria fosse vera un lavoratore pigro, il cui tempo di lavoro è maggiore, verrebbe ricompensato di più di un lavoratore efficiente. Anche qui, Marx sembra prevedere il futuro, e già analizza queste critiche in tutta loro inadeguatezza, 150 anni prima che vengano pronunciate. “Potrebbe sembrare che se il valore di una merce viene determinato dalla quantità di lavoro impiegata per la sua produzione, ne derivi che quanto più un individuo è pigro o maldestro, tanto maggior valore abbiano le merci da lui prodotte, dato il maggior tempo di lavoro impiegato per produrle. Questo sarebbe però un errore grossolano. Ricorderete che ho usato l’espressione “lavoro sociale” [riferendosi ad una frase scritta in precedenza], un aggettivo che concerne molti aspetti. [Con esso] intendiamo la quantità di lavoro per la sua produzione in determinate condizioni sociali medie di produzione, con una determinata intensità media sociale e una determinata abilità media del lavoro impiegato.” “Quando in Inghilterra il telaio a vapore entrò in concorrenza col telaio a mano, fu necessaria solo la metà del precedente tempo di lavoro per trasformare una determinata quantità di filo in un braccio di stoffa di cotone o di tela. Il povero tessitore a mano fu costretto a lavorare diciassette o diciotto ore al giorno invece di nove o dieci come prima. Ciò nonostante, il prodotto del suo lavoro di venti ore rappresentava solo dieci ore di lavoro sociale [...].” Fa un po’ impressione che nelle Università si scarti a priori una teoria così rivoluzionaria, sulla base di un paio di critiche che Marx stesso aveva già decostruito prima ancora di scrivere il Capitale…. In ogni caso, secondo le dinamiche del capitalismo, il lavoro produce ricchezza. Ma quanto di questa ricchezza torna a chi ha lavorato? Al lavoro, intanto, ritorna il salario, ovvero il valore del lavoro – un concetto diverso dal valore prodotto dal lavoro. Facciamola più semplice. Il capitalismo non soltanto deve produrre oggi, ma deve fare in modo di creare le condizioni giuste per produrre anche domani. L’operaio, dunque, deve disporre di alcuni strumenti fondamentali che gli consentano di tornare a lavoro con regolarità. Qui sta la funzione del salario. Il capitale sacrifica una parte di sé sotto forma di reddito da lavoro, una cifra che l'operaio spende per sopravvivere e dunque poter lavorare nel lungo periodo. Il valore del lavoro (il salario), è dunque il costo di riproduzione della forza-lavoro, ovvero il lavoro complessivo contenuto nelle merci acquistate da chi lavora. Niente, però, impedisce al capitalista di ricavare da quella forza-lavoro un valore superiore a quello speso per comprarla. Anzi, egli è costretto a ricavare di più di quanto speso, pena il fallimento del suo intero impianto produttivo. "Il valore della forza-lavoro è determinato dalla quantità di lavoro necessaria per la sua conservazione o riproduzione, ma l'uso di questa forza-lavoro trova un limite solo nelle energie vitali dell'operaio. Il valore giornaliero o settimanale della forza-lavoro è del tutto distinto dal suo esercizio giornaliero o settimanale." "La quantità di lavoro da cui è limitato il valore della forza-lavoro non costituisce un limite per la quantità di valore che la sua forza-lavoro può mettere in atto." La differenza tra il valore prodotto dal lavoro ed il salario si chiama plusvalore e finisce nelle tasche dei capitalisti sotto forma di profitti sul mercato. Questo concetto è il punto di partenza di (quasi) tutte le teorie che criticano lo sfruttamento capitalistico. Non c'è profitto senza sfruttamento. Marx ci tiene a sottolineare anche l'aspetto impersonale, inconscio e profondo di questo processo. Lo sfruttamento non è un fallimento morale del capitalista, persiste nonostante l'operaio sia formalmente suo pari e non dipende da chissà quale magheggio di un gruppo di ricchi cattivi.
Piuttosto, lo sfruttamento è un risultato oggettivo e inevitabile dei processi e delle logiche fondamentali del sistema. Il profitto, infatti, viene realizzato vendendo le merci al loro valore reale (o su prezzi di mercato che ruotano attorno ad esso) e non al di sopra di questo valore. “Perciò, vendendo la merce al suo valore, cioè secondo la quantità di lavoro in essa cristallizzato, il capitalista deve necessariamente realizzare un profitto. [...] Ripeto dunque che si realizzano profitti normali e medi vendendo le merci non al di sopra, ma al loro valore reale” Il profitto e lo sfruttamento trovano la loro fonte nei processi di produzione, e non in quelli di scambio (o di distribuzione). Se il profitto dipendesse dallo scambio, infatti, i capitalisti guadagnerebbero sempre a scapito di altri capitalisti, e non esisterebbero i profitti aggregati. Non c’è nessuna truffa, nessun fallimento morale: lo sfruttamento del lavoro è intrinseco, inevitabile e fondamentale in una società come quella capitalistica, interamente basata sul profitto. La teoria di Marx affronta la questione politico-economica alla radice, così da poter direzionare il conflitto di classe nelle contraddizioni che contano. Dunque qual è questo rapporto tra Salari, Prezzi e Profitti? Cosa succede quando i salari complessivi aumentano? Quali sono le dinamiche di feedback loop, azione e retroazione, tensioni e armonizzazioni che si celano dietro queste tre variabili economiche? Queste domande hanno una risposta abbastanza anticlimatica. Quando i salari aumentano, la quantità di lavoro erogata durante la produzione non subisce alcuna sostanziale modifica, e le forze produttive rimangono le stesse. Semplicemente, aumentano i costi di riproduzione del lavoro (quelli che il capitale anticipa prima di far partire la produzione). Il valore centrale attorno al quale ruotano i temporanei prezzi di mercato, dunque, non cambia. Se il risultato è lo stesso, significa che a cambiare sono semplicemente i valori relativi delle sue componenti principali (salari e profitti). Se la merce valeva 10 euro (escluso il costo dei macchinari) diviso in 5 euro di salari e 5 di profitti, dopo l'aumento dei salari la merce continua a valere 10 euro ma la classe operaia se ne intasca 7 e i padroni "solo" 3. “Dopo un turbamento temporaneo dei prezzi di mercato, l’aumento generale del livello dei salari avrebbe quale unico risultato la caduta generale del saggio di profitto [la massa di profitto relativa al denaro anticipato per la produzione (ndr)] senza alcuna variazione durevole nel prezzo delle merci” "Poiché il capitalista e l’operaio hanno da suddividersi solo questo valore limitato, cioè il valore misurato dal lavoro totale dell’operaio, quanto più riceve l’uno, tanto meno riceverà l’altro. Poiché si tratta di una quantità data, una parte aumenterà nella stessa proporzione in cui l’altra diminuisce. [...]. Se i salari diminuiscono, aumenteranno i profitti; se i salari aumentano, i profitti diminuiranno.” Questo discorso potrà anche sembrare una grande sega mentale da nerd di economia politica, ma, in realtà, è uno strumento imprescindibile per prevedere gli effetti di un innalzamento dei salari. Spingere per un aumento dei salari – al contrario di quel che pensava Weston nel 1898 e l'ideologia economica dominante nel 2024 – non ha alcuna controindicazione. Non solo: un obiettivo del genere costituisce una grossa minaccia per la classe nemica, ed è in grado di alimentare un'economia più ricca, abbondante e meno costosa per tuttə. È per questa ragione che l'aumento del livello dei salari è la principale rivendicazione storica del Movimento Operaio. Purtroppo, la sinistra odierna (radicale o meno) si è fatta contagiare dal neoliberismo e dal postmodernismo, ed ha rigettato quasi tutto il marxismo che conta. Di conseguenza, l’aumento dei salari è spesso l’ultima di mille sconclusionate rivendicazioni sociali. Abbiamo un disperato bisogno di rispolverare la nostra storia e far tesoro delle legacy dei Movimenti Operai del passato. L’odierno pensiero economico mainstream non si è sviluppato nell'Iperuranio. Piuttosto, come ogni altra scuola di pensiero, è figlio di determinati contesti sociali e trasformazioni politiche. In questo momento, il modello economico che va per la maggiore è uno strano mix tra la scuola marginalista e quella keynesiana di destra (neo-keynesiana). Questa curiosa accozzaglia in realtà ha molto in comune; si tratta fondamentalmente di due correnti reazionarie sviluppate dalla classe al potere per proteggersi dai movimenti popolari. Nel primo caso, il pensiero marginalista nasce sull’impronta neoclassica di fine Ottocento e inizio Novecento, in diretta contrapposizione al Marxismo, colpevole di “istigare conflitto e non armonia sociale”. Il neo-keynesianesimo, invece, è figlio della controrivoluzione neoliberista, che negli anni ‘60 e ‘70 lottò contro i Movimenti Sociali e operai per poi conquistare la piena egemonia negli anni ‘80. Se tra tutte le scuole di pensiero economiche ci siamo ritrovati proprio queste due come egemoni, è perché decenni di lotta politico-ideologica hanno portato a questo specifico risultato. Nel corso degli anni anche la teoria marxista ha avuto i suoi momenti di gloria, e si è puntualmente rivelata la teoria economica più avanzata in assoluto, in grado di dare filo da torcere al potere e supportare la classe lavoratrice. Da quando il Marxismo è stato eliminato dai programmi universitari, l’intera disciplina economica si è trasformata in una barzelletta. Il più recente turning point di questo scontro per l’egemonia lo ritroviamo nella Controversia sul Capitale, tra metà degli anni '60 e alla fine degli anni '70. In quel periodo, il sistema socialdemocratico era ormai perso in una crisi nera, e la sua ideologia economica risultava ogni giorno meno credibile. Da una parte, il neoliberismo tirava la corda per ristabilire il dominio totale dell’1%, mentre dall’altra, un'eclettica unione tra Marxisti, Post-Keynesiani e New Left cercava di sfruttare la crisi dell’ordine keynesiano per superare il capitalismo in toto. La sinistra, come ben sappiamo, è uscita sconfitta da questa battaglia. Ma sarebbe un errore grossolano attribuire questo fallimento alla povertà delle sue idee; al contrario, la classe nemica si è mobilitata in modo così aggressivo proprio perché le teorie del Movimento erano particolarmente pericolose. Dagli anni '80 in poi, tra processi politici all'estrema sinistra e la vittoria della coppia Thatcher-Reagan, le scuole di pensiero economiche anticapitaliste vengono politicamente isolate, tenute fuori dai programmi universitari e silenziate dai media. Già dagli anni ‘90, non c’è più alcuna traccia di questa innovativa scuola di pensiero nei luoghi del sapere. La Controversia sul Capitale è stato un discorso politico-economico profondamente rilevante, merito di una sinistra operaia in grado di concentrarsi sui temi che più contano. Ad oggi, gli economisti passano il loro tempo a farsi seghe mentali sulle tasse, sui design dei mercati e sulle curve di preferenza. Negli anni ‘70, invece, ogni economista (anche il più liberale) era costretto a confrontarsi con una domanda molto semplice: come viene creata realmente la ricchezza? Su quale base si fondano i processi di accumulazione di capitale e la realizzazione di profitti, i due pilastri economici del capitalismo? Per modernizzare il discorso economico da sinistra (e ce n'è un disperato bisogno), non è necessario provare a rifondare il marxismo, superarlo o "reinventarlo".
Piuttosto, è fondamentale recuperarne la legacy, andata persa dopo quarant'anni di repressione ideologica, e ricontestualizzarne la metodologia nel paradigma economico contemporaneo. Leggere Salario, Prezzo, Profitto è uno strumento importantissimo per analizzare l’economia in modo critico e per costringere gli economisti mainstream a trattare il fulcro centrale della loro materia: la creazione della ricchezza reale. In un clima ideologico così depresso, chi l’avrebbe mai detto che gli spunti di un uomo barbuto di Metà Ottocento potessero rappresentare un’ancora di salvezza? I.
Non Dirottare quel Treno…
II.
…Decostruzione dei Dogmi…
L’Inutilità della Legge della Domanda e dell’Offerta
Salari Alti, Prezzi Alti?
Salari Alti, Prezzi Bassi. Non è un Paradosso.
III.
…E Ricostruzione dell’Approccio Critico
Sfruttamento del Lavoro
IV.
L’Intricata Ragnatela tra Salari, Prezzi e Profitti
V.
Conclusione