27 Giugno 2024
The Bear:

Il Ritratto del

Precariato
Moderno
Alcune considerazioni dopo le prime due stagioni di The Bear,
in occasione dell'uscita della Terza.
#thebear

#serietv

#precariato
Alcune considerazioni dopo le prime due stagioni di The Bear, in occasione dell'uscita della Terza.

The Bear è una serie che non perde tempo in presentazioni. I personaggi vivono immersi nelle loro storie, incuranti dell’audience che li osserva, affaticati dal ritmo che – per una ragione o per l’altra – sono obbligati a mantenere. Il primo lungo flashback arriva solo oltre la metà della seconda stagione, senza spiegazione o contesto.


Fondamentalmente, The Bear è una fotografia muta. Ogni scelta e ogni relazione deve rientrare nel rettangolo dell’obiettivo – e dunque sottostare a degli onnipresenti e indiscussi vincoli di tempo, energia e denaro – e l’immagine che ne risulta non ha bisogno di didascalie. Parla da sola. In un’espressione, “show don’t tell”.


La decontestualizzazione è tale che risulta difficile capire quali fossero le intenzioni originali di chi l’ha scritta, e onestamente poco ci importa. Il cinico e concreto realismo della storia ci consente di andare oltre le intenzioni dell’autore, e basare le nostre interpretazioni sul contenuto della serie. The Bear prende vita da sé, e qui sta tutto il suo potenziale politico.


Nonostante la caoticità quasi teatrale di alcune scene, e l’incredibile pressione emotiva che pesa sui personaggi e sull’audience di fronte ad un piatto che deve essere pronto adesso, The Bear non perde mai il suo realismo. Anche nei suoi momenti più eccentrici, rimane fondamentalmente un’immagine fedele dell’intreccio tra mondo del lavoro, compulsioni del mercato, relazioni di genere e conseguenze psicologiche che ne conseguono.


Se The Bear si muove come una macchina fotografica, il suo soggetto indiscusso è il precariato (o almeno una sua sezione dominante).

Nell’industria della ristorazione possiamo leggere chiaramente i grandi cambiamenti che hanno investito la classe lavoratrice durante il neoliberismo.


Se negli ‘70 e ‘80 il paradigma fordista-socialdemocratico ha prodotto una classe operaia “di massa” – basata su una produzione standardizzata e in serie, all'interno di fabbriche dotate di tutto il capitale e delle materie prime necessarie alla produzione – oggi il paradigma neoliberale ha cambiato le regole del gioco.


La produzione odierna è “just-in-time”, e si muove in un mercato sempre più flessibile e personalizzato, attraverso posti di lavoro minimal che esternalizzano quanto possibile capitale, materie prime e manodopera.


Questa evoluzione è almeno in parte una conseguenza della spinta propulsiva del movimento operaio, che negli anni ‘70 ha occupato fabbriche in tutta Europa per rivendicare l’autonomia sul posto di lavoro e l’abbondanza collettiva. Il capitalismo si è adattato crudelmente a queste rivendicazioni, ingabbiandole nella flessibilità e nel precariato come tattica per assorbirle senza destabilizzare il suo apparato produttivo.


La classe lavoratrice si ritrova investita dal cambiamento a cui ha fatto da motore. Improvvisamente, il lavoro diventa parcellizzato, part-time, con orari e ritmi ultra-stimolanti, e le prospettive per il futuro si assottigliano, riducendosi infinite alle miriadi di fugaci esperienze del presente.


Non a caso, negli anni del Fordismo la classe operaia si annoiava. Oggi, lə lavoratorə vivono nell’ansia. Il nuovo paradigma ha manipolato il nostro raggio d’azione, stravolgendo le nostre possibilità e il nostro quadro psicologico.


In The Bear, questo nuovo precariato è cristallizzato nel mondo della ristorazione, in un’immagine mai idealizzata e priva di romanticismo. Non siamo di certo diventatə liberə quando abbiamo perso le catene della fabbrica, ma non è neanche vero che ci hanno rubato tutto. La classe lavoratrice non è morta: al contrario è pronta a tornare protagonista (in positivo e in negativo) nel prossimo decennio di conflitto politico intenso che ci aspetta.


Senza ombra di dubbio, nel neoliberismo il livello dei salari è sceso drasticamente. Rispetto alla ricchezza che esiste oggi, unə lavoratorə oggi ha accesso ad una quota minore di quella che una volta era disponibile per l’operaio-massa.

Al tempo stesso, però, le tecnologie di questi ultimi decenni hanno prodotto merci, strumenti ed esperienze rivoluzionarie, che un operaio degli anni ‘70 poteva solo sognare.


In The Bear, questa dualità è descritta con estrema naturalezza.

Sydney e Carmy non potranno mai permettersi il livello di agio e stabilità economica di cui godono i propri genitori, borghesi o proletari che siano. Non c’è spazio, oggi, per avere una casa stabile, una famiglia, dei risparmi e una pensione.


Al contempo, Sydney e Carmy si muovo nel mondo del lavoro con una libertà inedita. Possono permettersi di accumulare esperienze in città diverse, assaggiare cibi sempre nuovi e migliorare le proprie performance lavorative a beneficio anche del loro piacere personale.

L’incubo di rimanere intrappolatə in una fabbrica fatiscente per 40 anni, insomma, è scomparso dalle notti dellə lavoratorə.


Noi accogliamo questa lucida analisi del precariato moderno come una ventata d’aria fresca, che ci permette di comprendere i punti di forza e i nervi scoperti della nuova soggettività lavoratrice.


È emblematico che The Bear non abbia bisogno di confinare i suoi personaggi ad una condizione di estrema marginalizzazione o povertà assoluta per descriverne lo sfruttamento e l’alienazione.

Anzi, spesso è Carmy – in teoria, il “capo” dell’operazione – a star decisamente peggio degli altri, e possedere il ristorante diventa per lui quasi un peso, trascinato in avanti a fatica solo attraverso i prestiti dello zio benestante.


La storia, inoltre, non si arena su esplicite discriminazioni razziste o sessuali che relegherebbero alcuni personaggi ad un fallimento certo.

Spesso, il Movimento si limita a criticare solo le manifestazioni più violente del capitalismo, come se l’oppressione colpisse esclusivamente l’intersezione più satura.


Be sì, ci ripetiamo, magari quest’economia a te lascia sopravvivere, ma prova a chiederlo ad una persona nera, lesbica, trans, disabile e precaria.

Questo tipo di analisi aliena non solo il resto della popolazione (che subisce la pressione economica del capitalismo nonostante abbia altri privilegi), ma anche quella persona nera, lesbica, trans, disabile e precaria.


Da una parte, infatti, perdiamo tutto il potenziale rivoluzionario di una grossa fetta dellə lavoratorə, che è oppressa pur appartenendo ad alcune categorie privilegiate. Dall’altra, gli individui più marginalizzati diventano semplicemente il simbolo di un caso limite, una prova sterile della violenza di un sistema che in ogni caso non sappiamo affrontare.


In The Bear, i personaggi sono stati capaci di costruire un ambiente aperto e multietnico, eppure questo sforzo non è sufficiente. Tuttə subiscono il peso della stessa pressione: i meccanismi compulsivi del mercato e l’instabilità insita nel far parte del precariato. Il disagio diffuso di questo sistema si radica in maniera pervasiva, inconscia e poco esplicita.


Quando ci limitiamo a leggere una lista di discriminazioni e proclamarne la pesantezza, il potere non ha alcun interesse a fermarci. Questa strategia, politicamente, non funziona, ed anzi incoraggia l’idea condivisa che abbia senso ribellarsi solo quando si è letteralmente la categoria più oppressa al Mondo. La responsabilità della rivoluzione finisce per cadere dunque sullə più marginalizzatə, già oberatə da una sistematica mancanza di tempo e di energie che a malapena consente loro di sopravvivere.


The Bear non sta cercando di vincere la gara di chi ha la marginalizzazione più lunga, come fin troppo spesso accade inconsciamente negli spazi di Movimento, e questo le consente di mostrarci con chiarezza l’intricata rete di oppressioni impersonali che governa le nostre vite.


Anzi, il potenziale positivo del ristorante esaspera le limitazioni del sistema. Ad esempio, possiamo dire che ogni personaggio di The Bear lavori duramente e in buona fede per dar vita ad un progetto condiviso.

I presupposti morali per il successo ci sono tutti; la competizione interna è pressoché assente, e l’intero ristorante poggia sul desiderio di chi ci lavora di servire del buon cibo. Carmy lo fa per onorare la memoria di suo fratello, Richie per costruirsi un’identità positiva in un ambiente familiare, Sydney per mettere in pratica un sogno ambizioso che sa di meritare.


Nonostante tutto, l’apertura del ristorante rispecchia i meriti di una squadra bilanciata e competente. Una serie meno interessante si sarebbe arenata sugli errori di Carmy, sulla diffidenza di Cicero o sulla superficialità di Richie. The Bear, invece, accompagna i suoi protagonisti in un percorso di crescita personale, dove a tuttə è concesso di sbagliare ed imparare dai propri errori.


Se la seconda stagione finisce con una nota tanto aspra, e se nessuno riesce a godersi l’apertura del ristorante – che, dopotutto, va molto bene – un motivo c’è.


The Bear è infestata da un antagonista che distrugge la festa proprio sul più bello, una forza misteriosa che si muove nell’ombra e colpisce indiscriminatamente anche chi non ha fatto niente di male. Spesso, l’atmosfera ricorda quella di una tragedia. L'obiettivo dei personaggi è nobile, ma c’è un odore terribile che permea le pareti del ristorante. Si tratta di una specie di sconfitta preannunciata, dell’impossibilità postulata di chiudere il cerchio una volta per tutte.


Il mostro che perseguita The Bear è lo stesso che perseguitava gli operai degli anni ‘60: il Capitalismo.


Il casto della ristorazione è curioso anche perché, in un certo senso, si interseca con il mondo dell’arte. Potremmo dire: scegli il lavoro che ami, e lavorerai ogni singolo giorno per tutta la tua vita. Il mercato soffoca e corrode le passioni e i desideri dellə lavoratorə, che a loro volta si rifiutano di arrendersi proprio perché amano quel che fanno.


Il neoliberismo ci costringe a vivere la nostra vita un obiettivo per volta. Amo cucinare, quindi potrò dirmi realizzatə quando verrò ammessə in una scuola di cucina; quando ne uscirò a pieni voti; quando verrò assuntə in un ristorante di lusso; quando comincerò a fare carriera; quando aprirò un posto mio; quando il mio posto farà successo; e così via.


In questa frenetica corsa al ‘successo’, nessuno ha il tempo di soppesare gli effetti collaterali del lavoro. Il meccanismo che controlla la capacità di Sydney di arrivare alla fine del mese è lo stesso che pretende di incanalare i suoi sogni. Le regole brutali del Capitalismo risultano sostanzialmente insostenibili per chiunque non faccia parte di quell’1% della popolazione che non ha nulla di cui preoccuparsi.


L’esperienza di Carmy risulta, in questo senso, emblematica. In un sistema capitalistico, non c’è uno spazio per sanare il trauma familiare o occuparsi della propria salute mentale. Anzi, siamo incoraggiati ad utilizzare il dolore come un carburante, alimentando un circolo vizioso che ci chiede di sfogare produttivamente le nostre difficoltà.


Carmy si presenta come lo stereotipo vivente del genio tormentato. Il suo talento è palese e indiscusso, e la sua capacità di lavorare sotto pressione è funzionale anche quando risulta pericolosa.

Non è difficile immaginare una versione alternativa di The Bear che dipinge Carmy come un perfetto eroe. Basterebbe tagliare e ricucire le scene giuste, e ne uscirebbe fuori un quadro sensato, dotato di coerenza interna.


In un certo senso, Carmy rimane in ogni caso un eroe del lavoro capitalista, nonostante la serie si spinga così spesso oltre il sipario per catturare la sua disperazione.

Non importa se Carmy pensa al suicidio ogni giorno e non riesce a provare gioia, non importa se perde le persone più importanti della sua vita o se non trova il tempo per dormire. Non importa se Carmy ha frequenti allucinazioni o si mette regolarmente in grave pericolo, perché, sopra ogni altra cosa, rimane un lavoratore produttivo.


Il neoliberismo ci ha imbrogliato, ed ha inserito i nostri obiettivi sulla sua scala di valori. Come un cavallo che segue il profumo della carota, noi seguiamo i nostri sogni, e ci ritroviamo improvvisamente intrappolatə in una routine insostenibile, costruita su misura per drenarci delle nostre energie e trasformarle in una fonte di profitto.


I personaggi di The Bear sono quasi un’ottima squadra. Il loro unico errore è non prendere sul serio la posizione in cui si trovano.


Quando il padre di Sydney le chiede se lei e Carmy vengono pagati nello stesso modo, è proprio questo che la sta spingendo a considerare. Ti ricordi che il tuo futuro non dipende dalla tua bravura, ma dai soldi che hai nel conto in banca?

Sydney non è stupida, ed è ovvio che la conversazione tocchi una nota dolente. Al contempo, però, il ristorante non si è dato gli strumenti per sciogliere questa dissonanza cognitiva, e Sydney non ha altra scelta – l’unica cosa che può fare è tentare la fortuna, e vivere nell’incertezza.


In questo senso, è illuminante paragonare le scene di cucina che si svolgono nel ristorante con quelle ambientate in una casa.

Come fa notare Scott Hudson nel suo articolo “A science of pain: the Bear and the masculine domestic”, c’è una differenza abissale tra le emozioni che provano Sydney e Marcus quando cucinano insieme in un normalissimo appartamento, e quelle che li soffocano all’interno del ristorante durante l’orario di lavoro.


A casa la cucina è un momento di cura, che lascia ampio spazio alla creatività e alla sperimentazione, in una sorta di pausa catartica dallo stress del ristorante.


Eppure, da un punto di vista tecnico Sydney e Marcus stanno facendo esattamente la stessa cosa. Non solo, tra l’altro, cercano di trasformare il cibo in pasti commestibili, ma si sforzano di renderli piacevoli da gustare. Si tratta dunque di un’espressione che va oltre la sopravvivenza e segue una passione naturale, un desiderio comune che pervade le scene dello show.


Come mai una pratica del genere sfocia da una parte in un rito emozionale ed affettivo, e dall’altra in un cocktail letale di tensioni, mascolinità tossica, prevaricazione sociale e burnout psicologico?


The Bear dimostra che le condizioni lavorative non sono definite da fattori tecnici, ma piuttosto da condizioni economiche (e dunque politiche); cucinare sotto le leggi del mercato e secondo le logiche del profitto e cucinare in base alle regole del lavoro di cura e del lavoro affettivo sono due esperienze totalmente diverse.


Il ristorante alimenta l’atteggiamento prevaricatore di Richie (la cui pseudo-coscienza di classe mascolina meriterebbe un’analisi a parte), incoraggia Sydney a comportarsi in modo più mascolino, e spinge Carmy ad esplodere in sfuriate improvvise. È questa la conseguenza di un lavoro che deve sottostare a ritmi vertiginosi e insostenibili per sopravvivere in un’economia in crisi.


È invece il lavoro di cura – organizzato sulla base delle necessità e dei desideri di chi ne usufruisce – il campo adatto per sperimentare e muoversi verso il benessere collettivo.

Una delle lezioni più importanti dello show, però, è che un’esperienza del genere è possibile solo se abbiamo il tempo e i materiali per metterla in pratica.


Come Movimento, vogliamo mettere il lavoro di cura al centro dei nostri sforzi per un’alternativa positiva al capitalismo e diffonderla su scala globale? Allora prima dobbiamo impossessarci della ricchezza e dell'abbondanza che ci è stata rubata.

Altrimentə, finiremo intrappolatə anche noi in contesti che di “cura” ne parlano e basta.


Su questo tema, i prossimi passi di The Bear hanno l’opportunità di trarre degli spunti fondamentali. Cosa può fare una squadra unita per sopravvivere e realizzarsi senza rimanere schiacciata sotto le pretese del Capitalismo?


Nel frattempo, vi auguriamo buona visione. Ci rivediamo dopo la terza stagione.