7 Febbraio 2025
La Resilienza
è un Valore
di Merda
Una retorica da buttare.
#resilienza
Fare militanza all’interno di organizzazioni della sinistra radicale significa necessariamente avere a che fare con una serie infinita di nuovi concetti e nuove modalità d’azione. Ogni giorno, si scopre un nuovo atteggiamento da decostruire e se ne approssima un’alternativa. Ogni mese, ci si trova davanti un’ennesima Multinazionale che specula nella città. Durante ogni assemblea, si impara un termine politico mai sentito prima.
Un’esperienza del genere sicuramente ci arricchisce tanto. Siamo forzatə a confrontarci continuamente con delle novità, seppur “di nicchia”.
È anche vero, però, che se questi concetti circolassero già nelle piattaforme mediatiche di massa ogni militante avrebbe avuto il tempo necessario per assorbirle con calma, senza doverne fare una veloce indigestione durante le fasi di organizzazione politica pratica.
Già organizzare un Movimento è difficile: se poi si viene bombardatə da una novità dietro l’altra, si arriva inevitabilmente al burnout.
Uno dei concetti più popolari negli spazi sociali è quello della resilienza.
Nella maggior parte dei casi, viene usato per descrivere la capacità delle comunità marginalizzate di non soccombere alla brutalità del capitalismo.
Il sistema, per quanto ci provi, non riesce mai a sbarazzarsi del tutto di queste comunità – che si tratti di quartieri popolari o operai, oppure di comunità migranti o queer.
La qualità più interessante delle “comunità resilienti”, allora, consisterebbe nella loro capacità di adattarsi al sistema, di trovare continuamente delle nuove soluzioni da cui emergono “sperimentazioni spontanee” di solidarietà dal basso.
Questo discorso, però, avvalora la ridicola argomentazione secondo cui queste comunità sarebbero “geneticamente” radicali perchè composte da soggettività marginalizzate.
Questa romanticizzazione fuori luogo dell’inferno a cui sono costrette a vivere le comunità marginalizzate a noi fa particolarmente schifo.
La resilienza, come valore in sé, è una merda.
La narrativa della resilienza è fondamentalmente tossica nei confronti delle soggettività marginalizzate e finisce per idealizzarne i tratti fondamentali.
Lo diciamo non perché non nutriamo interesse per queste soggettività, o perché aiutarle costituisca una presunta “distrazione dalla lotta di classe”.
Anzi: critichiamo questa narrativa proprio perché è fondamentalmente tossica nei confronti delle soggettività marginalizzate e finisce per idealizzarne i tratti fondamentali.
I discorsi sulla resilienza affondano le loro radici in immaginari che oramai da decenni continuano a tormentare il nostro agire politico e a farci sembrare dei vecchi nostalgici illusi. Secondo questa prospettiva, il Movimento è l’underdog dello scontro di classe, l’eroe che resiste di fronte ad una sconfitta già preannunciata, di cui al massimo riesce magicamente a posticiparne la data.
Si tratta della solita retorica del “fallire meglio”, perché “almeno così stiamo facendo qualcosa”.
Questa retorica pervade le sale di ogni centro sociale, di ogni officina occupata o di ogni associazione politica di sinistra radicale. Stiamo perdendo, sì, ma lo stiamo facendo con la consapevolezza di essere i “vincitori morali”, quelli che la Storia ricorderà come coloro che “forse avevano ragione”.
La comunità marginalizzata diventa quindi il simbolo di chi “fa la cosa giusta” anche nei momenti difficili. La sua capacità di adattarsi alle logiche di profitto diventa il simbolo della “creatività dal basso” e della “solidarietà spontanea” nelle comunità oppresse.
Questo immaginario di lotta è fondamentalmente un autosabotaggio, una pacca sulla spalla che ci diamo per non dover affrontare il fatto che, realisticamente parlando, stiamo perdendo la lotta di classe – e con un margine particolarmente ampio.
Una comunità marginalizzata diventa resiliente – come può non farlo? – quando non ha modo di rispondere colpo su colpo agli attacchi che subisce quotidianamente da parte del Capitale.
Prendere la resilienza come “valore” (spesso poi declinato in senso individualista) significa accettare che non disponiamo di alcuno strumento politico da poter condividere con queste soggettività. Il massimo che facciamo è osservare come chi non ha niente si adatta ad una situazione di abbandono sociale, e imitarne il comportamento.
Se però una persona viene pestata a sangue per tutta la vita, ci sembra di cattivo gusto sottolineare e apprezzare esclusivamente la sua resilienza nel ricevere gli schiaffi.
Come scrive Olúfḿi O. Táíwò nel suo libro “Elite Capture”,
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“L'umiliazione, la privazione e la sofferenza possono risultare costruttive, soprattutto nel contesto dello sforzo deliberato e strutturato dell'aumento della coscienza’[...]. Queste stesse esperienze, però, possono anche distruggere, e se dovessi scommettere su quale effetto prevalga nella maggior parte dei casi, scommetterei sul secondo.
Contrariamente a quanto si dice, il dolore, che sia nato dall'oppressione o meno, è un cattivo maestro. La sofferenza è parziale, miope ed egocentrica. Il nostro immaginario politico non dovrebbe aspettarsi qualcosa di diverso. L'oppressione non è una scuola privata.”
L'ulteriore conseguenza di questa retorica da 4 soldi è quella di romanticizzare le soluzioni di emergenza che queste comunità tirano fuori con i pochi strumenti di cui dispongono per difendersi dalle logiche predatorie del capitalismo.
I quartieri operai argentini che recuperano le fabbriche abbandonate dai padroni, i luoghi di ritrovo “sotterranei” delle comunità queer, gli squat temporanei di migranti senza documenti – queste sono tutte soluzioni pratiche di emergenza da cui scaturiscono sicuramente dinamiche importantissime, ma non sono processi di cambiamento strutturale.
Soprattutto vanno bene per condizioni di estrema marginalità: ma le persone che fanno militanza hanno il tempo e il privilegio di dedicare gran parte della loro vita all’attività politica e dunque dovremmo pretendere molto di più da loro.
Il Movimento, invece, idealizza queste soluzioni come autosufficienti, e si rifiuta di fornire strumenti concreti per farle arrivare al cuore delle contraddizioni del sistema.
A furia di romanticizzare la marginalità, il Movimento stesso è diventato marginale.
Queste romanticizzazioni si solidificano nella testa di ogni militante e si crea un senso comune implicito per cui – per qualche strana ragione – le soggettività povere ed oppresse sono destinate a sviluppare spontaneamente dinamiche di solidarietà dal basso.
Il che significa ignorare tutti quei casi in cui soggettività e comunità marginalizzate (povere, oppresse ed escluse dalle logiche del capitale) riproducono logiche oppressive e scatenano interminabili guerre tra poveri.
Basterebbe farsi un giro su Rete 4 per capire esattamente di cosa stiamo parlando.
Questa visione collettiva, questo immaginario di lotta, è fondamentalmente un autosabotaggio.
Insomma, elevare la resilienza ad un valore etico-culturale all’interno del Movimento significa ripetere le esperienze di piccole isole marginali, continuamente inglobate e risputate dal Capitale, piuttosto che trovare il modo di unirle in un arcipelago coordinato e militante.
La resilienza su un livello “micro” altro non è che una celebrazione del fallimento della sinistra radicale, una romanticizzazione dei coping-mechanism sociali che si sviluppano nelle soggettività marginalizzate in assenza di alternative politiche reali.
Questa critica può essere applicata anche parzialmente al concetto di resistenza, o quantomeno all’abuso che in genere si fa di questo termine.
La non troppo sottile differenza tra i due termini è che la resistenza indica quantomeno un’opposizione attiva a dei processi del capitale, anche se questa parola non porta con sé la costruzione di un’alternativa.
La resilienza, invece, è semplicemente la capacità di assorbire gli urti senza venirne distrutto.
Invece di opporsi, si sopportano le ingiustizie e ci si adegua. È un atteggiamento che, a pensarci bene, ricorda molto il machismo odierno, che celebra ogni uomo che, nonostante le difficoltà, “riesce a sacrificarsi per la propria famiglia”.
Ed è proprio da qui che nasce la solidarietà negativa, quella retorica per cui “se ho resistito io a questi ostacoli perché non dovresti farcela anche tu? Forse non ci hai provato abbastanza.”
La resilienza nei Movimenti è l’altra faccia della medaglia della manipolazione della mascolinità come strumento di distruzione della solidarietà, e non dovrebbe essere alimentata dagli spazi sociali.
Forse, però, c’è qualcosa che si può salvare del concetto di resilienza – a patto di trasformare radicalmente il contesto in cui viene utilizzato.
La resilienza su un livello “micro” altro non è che una celebrazione del fallimento della sinistra radicale.
Come abbiamo visto prima, la resilienza descrive la capacità di assorbire un urto, un danno, un evento traumatico, senza “sgretolarsi” in mille pezzi, e rimanendo piuttosto solidə e inscalfibilitə.
Questi, però, non sono attributi da celebrare negli individui, o nelle isole che compongono la marginalità.
Una persona rivoluzionaria ha il compito di problematizzare ciò che la società dà per scontato, di rendere insopportabili e inaccettabili i processi oppressivi su cui si fonda ogni sistema classista.
La solidità, la capacità di mantenere in piedi le proprie basi e le proprie strutture senza che esse si sgretolino, dovrebbero essere attributi delle infrastrutture sociali del Movimento, di ciò che emerge su larga scala dalle continue interazioni positive tra le classi oppresse.
Non c’è nessun orgoglio nell’essere in grado di sopportare individualmente la pressione feroce a cui ci sottopongono le logiche del profitto.
C’è molto orgoglio, invece, nel vedere un sistema oppressivo incapace di porre delle barriere ad un Movimento che sfonda ogni argine.
E no, questo non succederà grazie ad una retorica filosofica da quattro soldi, ma soltanto attraverso una coordinazione collettiva e delle strutture di larga scala in grado di resistere agli attacchi di chi sta al potere.
Insomma, dovremmo apprezzare la resilienza come risultato politico dato dalla capacità di uno o più Movimenti di costruire un Contropotere e delle Contro-Istituzioni efficaci.
Invece di celebrare i coping-mechanism delle comunità abbandonate dalla società, possiamo celebrare la capacità dellə oppressə di costruire solidarietà e solidità intorno al nostro agire comune.
La resilienza è un valore di merda, ma la creazione collettiva di strutture di Movimento resilienti, forti e solide potrebbe essere un buon principio da cui far ripartire le nostre lotte.