12 Ottobre 2024
Leggere
Samah Jabr
Una lente lucida e critica per comprendere il contesto palestinese.
#palestina
È passato un anno da quest’ultima fase dell’escalation militare israeliana, la più devastante per il popolo palestinese.
La quantità di bombe che Israele ha lanciato su Gaza – un territorio grande quanto Napoli – ha ormai superato (e di tanto) quella raggiunta dalle campagne militari naziste nella Seconda Guerra Mondiale.
Da quel 7 di ottobre sono partite mobilitazioni a macchia in tutta Europa, per un totale di decine se non centinaia di migliaia di manifestazioni in un solo anno.
Se anche voi siete scesə in piazza (e specialmente se ne avete organizzata una), avrete sentito ad oltranza interventi che ripetono lo stesso concetto: dobbiamo ascoltare il popolo palestinese, fare arrivare la sua voce anche qui.
Ora, pensare che basti fare eco della voce di un popolo per liberarlo da un sistema di apartheid genocida è indicativo della nostra incapacità di cambiare lo status quo. Siccome non siamo in grado di costruire del leverage politico contro gli alleati politici di Israele, ci crogioliamo nella consolazione che almeno noi “ascoltiamo il popolo palestinese.”
Non è sicuramente possibile mostrare solidarietà simbolica e concreta ad un popolo oppresso senza prima ascoltarlo. Se ci fermiamo all'ascolto, però, vuol dire che non siamo in grado di agire in modo costruttivo, e dunque di minacciare concretamente chi perpetua un genocidio.
Oltretutto, "ascoltare un popolo" non è un'impresa facile. Il popolo palestinese – come ogni altro popolo sulla faccia della terra – ha un storia complessa, mille diverse sfaccettature, contraddizioni interne, voci contrastanti e strategie di resistenza contro l'occupazione fondamentalmente inconciliabili.
Non esiste la voce palestinese, e chi crede di averla trovata si sbaglia.
Purtroppo, ci facciamo spesso guidare da un presupposto inconscio, tipico di chi romanticizza inconsciamente i popoli oppressi: se un gruppo sociale è sistematicamente oppresso, allora ogni persona che ne fa parte è consapevole di questa oppressione e ha elaborato il trauma sociale che ne consegue.
Questa logica associa l'omogeneità etnica (o sociale) all'omogeneità politica, e a lungo termine alimenta quella retorica fascista secondo cui le idee di un popolo sono determinate dalla loro appartenenza ad un'etnia e Nazione comune.
È inoltre oggettivamente impossibile accedere ad ogni fonte, testo e testimonianza del popolo palestinese. Già solo la nostra conoscenza dei loro prodotti mediatici è incredibilmente scarsa (se non nulla).
Su quale criterio decidiamo quali sono le fonti prioritarie e come interpretarle? Quali sono le voci che rappresentano un coro di resistenza attiva e tentativi reali di liberazione? Perché?
Purtroppo, quando si tratta di stabilire delle priorità i Movimenti si nascondono. Definire delle priorità significa creare una gerarchia (questa fonte è più importante di quest’altra), e al Movimento neo-anarchico contemporaneo – come lo definiva Mark Fisher – le gerarchie non piacciono a prescindere e vengono considerate un tentativo autoritario di direzionare le lotte.
La politica, però, emerge proprio nella capacità di scegliersi delle priorità chiare, che rispondono agli interessi economico-sociali specifici che si nascondono sotto ogni forza politica.
Ascoltare un popolo senza un occhio critico finisce per riprodurre delle dinamiche contraddittorie, interne al popolo stesso. Il nostro compito è invece quello di fare chiarezza, e far emergere nel cuore dell'Impero voci di resistenza attiva all'occupazione sionista, che possano influenzare positivamente i nostri sforzi.
Leggere Samah Jabr ci fornisce un'ottima lente critica per interpretare la lotta anticoloniale palestinese.
Jabr è una psichiatra palestinese, una tra le quindici presenti in tutta Gaza. La sua esperienza è unica e comune al tempo stesso.
Chi meglio di una psichiatra politicizzata può articolare la psiche collettiva di un popolo ed esplicitare le sue necessità?
Tra le varie fonti dirette a cui siamo statə espostə durante la nostra militanza, Jabr emerge sempre come una delle voci più concrete, realiste e radicali.
Il suo stile di scrittura è molto diretto, procede con un dente perennemente avvelenato – un atteggiamento che, come sapete, su La0 apprezziamo molto – e le sue intuizioni critiche sono spogliate del romanticismo che idealizza le lotte fino a renderle irriconoscibili.
Ci viene spontaneo assimilare questo suo brillante pragmatismo ad un’impostazione materialista – un termine che fa parte del nostro bagaglio culturale, ma che riteniamo possa costituire un buon metro di paragone tra idee simili sviluppate in culture completamente diverse.
In "Dietro i Fronti" e "Il Tempo del Genocidio" troviamo una cinquantina di articoli scritti da Jabr tra il 2006 ed il 2024 – giusto per ribadire che la storia del "conflitto in Medioriente" (aka il genocidio palestinese) non è iniziata il 7 ottobre.
Con questo articolo, vogliamo riportare diverse sue considerazioni che, a nostro parere, ogni Movimento dovrebbe incorporare in modo lucido nelle logiche discorsive che porta nelle piazze (e non solo).
La Resistenza Popolare
È evidente che per Samah Jabr la resistenza popolare sta al centro di tutto. Ogni articolo è pervaso da quest'aura: come articolare una testimonianza diretta delle esperienze del popolo palestinese in un modo funzionale alla lotta contro l'occupante?
Questa è la qualità principale dei suoi scritti. Jabr è perfettamente consapevole che la resistenza non è una qualità innata, presente a prescindere nel DNA dei palestinesi; piuttosto, la resistenza è un'opera sociale che va curata, coltivata, costruita e progettata strategicamente dalle forze politiche anticoloniali. La lunga tradizione storica di resistenza attiva contro Israele è l'ancora che fornisce al popolo palestinese gli strumenti di difesa e contrattacco. Jabr chiama questa resistenza sumud, un termine che è particolarmente diffuso a partire dalla prima intifada.
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"[Sumud] implica anche di mantenere un risoluto atteggiamento di sfida alla sopraffazione e all'occupazione. Non si tratta di una qualità innata, ma di un sistema di attitudini e abitudini che si possono imparare e sviluppare."
Solo contestualizzando la resistenza attiva si può dunque continuare a far crescere il desiderio di riscatto e liberazione di un intero popolo. Il solo romanticismo svuota la storia del suo contenuto, e impedisce la crescita nel presente.
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"Non possiamo semplicemente aspettare che la giustizia arrivi: dobbiamo lavorare sodo perché si materializzi"
L'oppressione e la conseguente resistenza sono fenomeni alimentati da un carburante impersonale, spesso inconsapevole. Come abbiamo già detto nell’introduzione, le categorie oppresse non per forza sono pienamente consapevoli della propria oppressione.
Fu Silvia Federici a esporre nel modo più lucido la questione dell'oppressione agita dalle classi oppresse stesse. Nella sua spietata critica alla famiglia negli anni '70, Federici sottolineava che erano proprio le famiglie operaie quelle in cui l'oppressione patriarcale era più soffocante.
Gli operai, stanchi e frustrati dall'oppressione nelle fabbriche, vomitavano in famiglia tutta la tossicità sociale assorbita al lavoro. L'operaio pretendeva una condotta rigida ed eccellente da parte della moglie, per sopperire con il lavoro domestico alle energie perse nello sfruttamento in fabbrica.
Questo è il meccanismo base dell'oppressione riprodotta all’interno delle classi oppresse, la coazione a ripetere che peggiora lo stato delle loro ferite.
Jabr è profondamente cosciente di questo fenomeno, di questa oppressione supplementare che si sviluppa all'interno dello stesso popolo colonizzato. Frustrati dalle umiliazioni subite dall'esercito israeliano, i padri palestinesi spesso vomitano la loro rabbia repressa in forme di violenza patriarcale; dei pazienti si mettono a parlare in ebraico nel pieno della loro fase maniacale, per ingigantire il loro momentaneo senso di superiorità. E la lista continua.
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"La maggior parte delle persone con cui ho potuto parlare soffre di una persistente umiliazione e della sensazione di perdita di virilità. Maschi simili perdono il senso dell'onore e del rispetto quando si vedono nell'impossibilità di sopperire alle necessità della loro famiglia. Lottano per ritrovare un illusorio controllo, esprimendo misoginia e compiendo atti di violenza coniugale come se fossero espressioni della loro virilità."
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"Un palestinese di Gerusalemme mi ha detto: "Non vado in vacanza a Eilat: sarà piena di arabi!". Gli sforzi di alcuni palestinesi per assimilarsi ed identificarsi agli israeliani sono veramente patetici. Alcuni comprano il loro abbigliamento nei negozi israeliani, vanno da parrucchieri israeliani, guidano ascoltando musica ebraica. Ho potuto osservare pazienti palestinesi che in piena crisi maniacale si mettevano a parlare in ebraico come segno di grandezza."
Più si subisce l'oppressione sulla propria pelle, meno lucidità si ha per comprendere le radici profonde, impersonali e politiche di questa oppressione.
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"Si sta assassinando l'anima palestinese: questa distruzione del nostro spirito si manifesta nella sete di dominare i deboli e dirigere la nostra aggressività verso i più piccoli. Chi non è capace di difendersi ci serve da ricettacolo della nostra umiliazione, su di loro trasferiamo il nostro sentimento di vergogna."
Insomma, nel bene e nel male, non c'è niente di speciale nel popolo palestinese: Samah Jabr non si perde nell’essenzialismo romantico che troppo spesso domina le discussioni della sinistra radicale sul tema Palestina.
Certo, Jabr è fiera della storia del suo popolo, ed è molto legata alla sua fede, che cita come uno dei motori principali del suo sforzo. La sua logica, però, rimane costruttivista.
C’è chi fa affidamento su un senso religioso e chi trae energia da particolari eventi storici, ma il lavoro sul campo rimane lo stesso.
La resistenza va innaffiata e supportata materialmente, non apprezzata simbolicamente e mitizzata da lontano.
La lotta politica non è schizzinosa, non può permettersi di escludere a priori dei luoghi di scontro. Essa può e deve appigliarsi ad ogni punto debole, nervo scoperto e arma a doppio taglio concessa dal nemico. Anche la lingua (in questo caso, l’ebraico) può essere contestata sul campo del nemico e modificata in nome della liberazione.
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"Io voglio imparare l'ebraico per comprendere e trovarmi meglio alle prese con una cultura appena arrivata e le sue credenze, i valori, le abitudini e le tradizioni imposte, che hanno finito per intrecciarsi con le nostre vite. Imparare l'ebraico mi aiuterà a combattere il linguaggio dell'occupazione utilizzando la lingua dell'occupante per esprimere la mia opinione, dandole nuove forme letterarie che riflettano il vissuto palestinese, come un atto terapeutico di dialogo e resistenza."
Anche gli stessi strumenti del diritto internazionale, corrotto e asservito alla borghesia occidentale, meritano di essere contestati.
È necessario applicare una forte pressione politica che usi le armi dei colonizzatori contro loro stessi – o usare la corda che i capitalisti ci hanno venduto per impiccarli, per citare Lenin.
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"La grande importanza dei processi internazionali risiede nella loro capacità di dar voce a coloro che sono stati vittime dell'ingiustizia. Questo atto ripara le ferite psicologiche e ci rende sopravvissuti effettivi, ci fortifica costringendo i responsabili dei crimini a fare ammenda, cosicché i loro crimini non restino senza giusta condanna."
Non c'è spazio per moralismi e spiccia etica borghese.
"Le porte per la libertà spesso sono aperte da mani insanguinate,” scrive Jabr, ed è forse la citazione più bella di tutti i suoi scritti, che esplicita il fulcro di un resistenza pratica, razionale e militante. "I palestinesi cercano la giustizia in modo realista, lucidi sui rischi da correre e i sacrifici richiesti. È proprio così strano che alcuni preferiscono la morte stessa all'oppressione e all'umiliazione?"
I Movimenti Occidentali hanno veramente tanto da imparare dalla critica di Jabr.
Una Critica Tagliente allo Stato di Israele
L'empatia selettiva pervade gli studi dei mass media e le teste dei giornalai più influenti. Le vite cancellate suscitano diverse reazioni a seconda della loro etnia.
A nessuno frega un cazzo delle vittime palestinesi. Quando invece le vittime sono israeliane, l’impressione è quella di avvicinarsi alla fine del Mondo. Le vittime italiane suscitano giusto un paio di domande e una vuota condanna ad Israele; dopo un paio d’orette, tutto torna come prima.
I palestinesi "muoiono sotto le bombe"; gli israeliani "vengono uccisi a sangue freddo".
Questo quadro ideologico riflette il doppio standard della geopolitica occidentale. Lo sterminio di massa di Israele viene ignorato, mentre ogni singolo contrattacco palestinese armato è un gravissimo crimine umanitario.
In poche righe, Jabr coglie l'essenza dell'ipocrisia, della falsità e della brutalità politica occidentale, che mente sapendo di mentire e supporta consapevolmente uno Stato genocida.
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"La teocrazia nazionalista ebraica è chiamata democrazia. I territori occupati sono territori "contesi", le colonie illegali sono "quartieri" e la loro deliberata espansione in terra occupata è "crescita naturale". Gli USA, che sostengono Israele con il loro denaro, armi e veti all'ONU sono "mediatori sinceri". I palestinesi non lanciano pietre ma "rocce", il muro di separazione è una "barriera", i soldati dell'occupazione sono "forze di difesa". I militanti sionisti liberali sono un "campo pacifista". La storia della Palestina che insegniamo ai nostri figli è ritenuta "un'incitazione". La tortura viene presentata come una "pressione fisica moderata". L'opposizione è opera di "terroristi ed estremisti", chi collabora e si sottomette è detto "moderato e realista". La restituzione di insignificanti porzioni di terra rubata, in applicazione del diritto internazionale, diventa una "generosa offerta israeliana"[...]."
L'emblema di questo doppio standard sta nell'uso della parola terrorismo. Un atto terroristico non dipende del numero di civili coinvolti, della brutalità della violenza o dalla retorica dei comunicati. Se così fosse, le operazioni militari israeliani e occidentali sarebbero degli attentati terroristici per definizione.
La differenza tra un soldato ed un terrorista è il colore della loro pelle. Gli arabi sono terroristi in quanto arabi, e l'Occidente – secondo la definizione che si è auto-attribuito – non è in grado di compiere atti terroristici.
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"Come si spiega il fatto che la parola "terrorismo" sia applicata così volentieri a individui o a gruppi che utilizzano bombe artigianali e non agli Stati che impiegano armi nucleari e altri ordigni vietati internazionalmente per aggiudicarsi la sottomissione all'oppressore? Israele, gli Stati Uniti e il Regno Unito dovrebbero figurare in testa alla lista degli Stati esportatori di terrorismo, a causa del loro ricorso agli attacchi armati contro le popolazioni civili."
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"Ma "terrorismo" è un termine politico di cui si serve il colonizzatore per screditare quelli che resistono - nello stesso modo in cui gli afrikaner e i nazisti qualificavano come "terroristi" i combattenti per la libertà neri e francesi."
Qui emerge un fattore fondamentale della geopolitica occidentale: ogni brutale giudizio da parte dei leader occidentali è una confessione implicita di crimini che loro stessi stanno commettendo. Il colonizzatore proietta sul colonizzato la sua violenza per giustificare le proprie azioni criminali.
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"I politici e portavoce israeliani assomigliano a galli che si credono pavoni. Dall'alto del loro piedistallo sputano disprezzo per "la cultura palestinese di odio e di morte" e sostengono che "i palestinesi usano i propri figli come scudi umani". Nel mio mestiere, questo tipo di dichiarazioni si qualifica come una proiezione."
Beh, però esisterà una forza politica israeliana che ripudia il regime di apartheid e la pulizia etnica messi in campo dal proprio paese, no? Insomma, dov'è la "sinistra israeliana"?
È complesso analizzare l’opposizione interna ad un regime coloniale, e spesso riproduce contraddizioni interne mai sanate. Da una parte, queste forze vengono celebrate in modo spiccio dal colonialismo stesso. L'Occidente – ci dicono – è talmente avanzato che addirittura lascia spazio all’opposizione, e sa mettere in discussione sé stesso e i suoi crimini (questo tipo di logica è frequentemente abusata da giornalai come Rampini e Parenzo).
Dall'altra, una forza di opposizione che agisce nel cuore del nemico imperiale è un leverage importante per l'intera resistenza decoloniale.
Nel contesto israeliano, però, le discussioni stanno a zero: la “sinistra” israeliana non è altro che la facciata "umanitaria" dell’apartheid, atta a ripulire i crimini coloniali.
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"In Israele non costa nulla essere di sinistra, anzi, oltre che dei privilegi coloniali si può approfittare di "escursioni della pace" gratuite e del business della coesistenza. La sinistra adora incontrare dei palestinesi, mangiare l'hummus, scambiarsi impressioni e racconti. In breve si tratta di un processo senza fine, il cui obiettivo non è il raggiungimento di una risoluzione qualsiasi, ma di permettere al governo israeliano di prendere tempo e consolidare il suo dominio moltiplicando le azioni sul terreno."
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"Mentre appaiono progressisti, comprensivi della sensazione dei palestinesi di essere saccheggiati, essi rafforzano la mitologia sionista che è stata ed è utilizzata per giustificare proprio questo saccheggio."
Jabr critica duramente la sinistra israeliana, ma non ne è particolarmente contenta. L’autrice è pienamente consapevole dell’importanza e l’utilità di un’opposizione interna. Questo atteggiamento premette un’attitudine costruttiva e anti-essenzialista: l’appartenenza al popolo israeliano non è immediatamente ed eternamente demonizzante; piuttosto, è l'accettazione passiva dei privilegi acquisiti dalla violenza, lo sfruttamento e l’oppressione coloniale a fare la differenza.
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"Prendere posizione contro l'occupazione non sarebbe nemmeno un'anomalia storica: dei cittadini francesi hanno sostenuto il Fronte di Liberazione Nazionale algerino e allo stesso modo cittadini sudafricani bianchi hanno appoggiato il Congresso Nazionale Africano. Ma dove sono i partner israeliani nella resistenza all'occupazione, che sarebbe uno degli atti più umani e altruisti che si possano immaginare?"
Al tempo stesso, non è un caso che proprio ad Israele l'opposizione interna rimanga una pura pagliacciata.
Israele è uno Stato creato a tavolino, un ente incaricato di attirare migranti occidentali e fare pulizia etnica di un altro popolo. Non è, com'era in Sud Africa, una Nazione con cittadini di Serie A e cittadini di Serie D zona retrocessione, dove lo spazio di manovra nell’ottenere della solidarietà tra i cittadini di Serie A è quantomeno un’ipotesi considerabile.
Nel contesto israelo-palestinese, la linea di demarcazione è tale che una solidarietà israeliana è pressoché impossibile da ottenere.
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"Israele ha potuto essere costituito grazie alla cooperazione della sinistra con la borghesia e l'imperialismo occidentale. È la sinistra laica – non gli ultra-ortodossi – che si è resa responsabile della massiccia espulsione dei palestinesi e dei massacri compiuti dopo il 1948 dalle milizie ebraiche."
La critica di Jabr allo Stato illegittimo israeliano è perfettamente lucida e punta il mirino nel cuore della sua brutalità.
La sua esistenza si basa sulla complicità e ipocrisia della Comunità Internazionale; le logiche discorsive che produce sono una serie di doppi standard che de-umanizzano il popolo palestinese. Israele è uno stato privo di un’opposizione decoloniale interna, che può permettersi di compiere un genocidio e comunque mantenere intatto il suo status di democrazia civile ed umanitaria.
Tra Resistenza Attiva e Opportunismo
Abbiamo detto che il popolo palestinese non è naturalmente immune a contraddizioni interne. Governi corrotti ed alleati con gli israeliani, forme di violenza patriarcale e fratricida e simili tipi di auto-sabotaggio coesistono con lotte rivoluzionarie di emancipazione.
Ma siamo davvero in grado di essere più specifici? Quanto sappiamo davvero della politica interna palestinese?
Per un Movimento che tende a romanticizzare i popoli oppressi, non è facile affrontare il tema della politica interna palestinese. Siamo pervasə da una sorta di paralisi intellettuale, abbiamo paura che evidenziare eventuali tensioni interne e descrivere forze politiche diverse tra di loro serva solo delegittimare le azioni di un popolo.
A Jabr, però, queste contraddizioni interne non incutono alcun timore. È anzi importante distinguere tra la resistenza e l'opportunismo carrieristico.
Dagli scritti di Jabr – in particolare "Dietro i Fronti" – è evidente che la divisione politica interna si giochi sulle forme di resistenza, ed in particolare sull'uso della violenza e delle organizzazioni armate.
L'Autorità Palestinese è costretta a chinare il capo ai diktat israeliani per poter mantenere un minimo di status. Al tempo stesso, dipende dal popolo palestinese, verso cui deve mantere almeno un briciolo di legittimità.
Il risultato è una delegittimazione costante delle forme di resistenza armata, un atteggiamento che alimenta la narrazione dei "palestinesi buoni" che "bacchettano" i palestinesi cattivi. È un classico caso di "dividi et impera".
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"Questo nuovo dogma [imposto dall'Autorità Palestinese] non ha niente a che vedere con una resistenza non violenta; ha lo scopo di delegittimare la resistenza armata. Si tratta di permettere la repressione di coloro che si oppongono all'occupazione nonostante il fallimento totale delle autorità nel garantire la sicurezza dei Palestinesi e nel proteggerne gli interessi."
Jabr rivendica e sostiene apertamente il ruolo fondamentale della lotta armata, e denuncia l’inefficacia di una lotta esclusivamente non violenta davanti alla brutalità dell'esercito occupante. Tanto più che la resistenza armata è rivendicata dal movimento nazionale palestinese "fin dai suoi albori".
Ovviamente, la resistenza armata non è cieca, non è violenta per il gusto di esserlo. È l'oppressore ad aver reso inevitabile la scelta di lottare in modo violento: la rivolta è il linguaggio dei popoli sistematicamente ignorati.
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"L'accanita negazione dei diritti palestinesi, unita all'assenza di dichiarazioni o azioni efficaci da parte della comunità internazionale, ci ha costretti a renderci conto che l'autodifesa era la nostra unica speranza."
La resistenza armata è semplicemente uno dei tanti strumenti politici per poter condurre una resistenza degna di questo nome.
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"Ciò che preoccupa nelle critiche riguardanti la nostra resistenza [armata] è il fatto che esse trascurano la nostra sofferenza, la nostra spoliazione e la violazione dei diritti più elementari. Quando ci assassinano, le critiche restano impietrite. La nostra lotta pacifica non impressiona. Quando, però, alcuni di noi si lasciano andare alla rappresaglia e alla vendetta, allora indignazione e condanna si elevano contro l'insieme della nostra società."
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"La violenza può costituire il mezzo di difesa di un essere umano razionale."
Insomma, non possiamo stupirci se emergono forme di resistenza violenta all'interno di un contesto del genere. La violenza è una reazione spontanea all'umiliazione brutale subita quotidianamente.
Quel che si può fare è organizzare e direzionare con intelligenza questa forma di lotta, così da poterla usare nel modo più efficiente e strategico possibile, senza rischiare di ricadere in cieche spirali di violenza destinate al fallimento.
La resistenza armata deve coesistere con forme di lotta non violenta in grado di costruire un ampio set di pratiche sovversive.
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"È comunque importante distinguere tra obiettivi accettabili (militari) e obiettivi inaccettabili (civili), come pure stabilire limiti all'uso delle armi."
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"I palestinesi devono dare prova di creatività per fornire forme di resistenza alternative non violente ed efficaci."
Come in ogni contesto classista e coloniale, la classe/popolazione oppressa non è mai omogenea. I tentativi individuali e collettivi di superare, resistere e tollerare l'oppressione variano, così come variano i rapporti con l'oppressore. Tutto dipende dalle proprie circostanze, da ciò che ogni individuo è in grado di sopportare o disposto a rischiare.
Per poter ascoltare il popolo palestinese abbiamo bisogno di conoscere il contesto entro il quale si muovono le variegate voci interne e contrastanti. La nostra lente critica è una bussola necessaria per farci navigare in queste difficili acque. Altrimenti, l'ascolto di un popolo oppresso diventa un semplice e vuoto esercizio di stile.
La Funzione dei Movimenti
Vogliamo concludere questo articolo con l'insegnamento più importante che Jabr può lasciare ai Movimenti occidentali: la capacità di agganciarsi ai desideri sociali pre-esistenti – qualsiasi forma essi prendano – e da lì costruire la lotta politica.
Azioni dirette spontanee, generate dall'immediata frustrazione, sono una fonte di energia fondamentale per un progetto ampio di liberazione decoloniale. Al tempo stesso, queste iniziative da sole non bastano, ed è compito delle strutture di Movimento incanalarne verso la radice reale del problema (in questo caso l'occupazione sionista).
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“Le azioni dei nostri giovani esprimono un valido e legittimo desiderio di libertà e dignità, ma tocca a noi sostenere questo desiderio e mantenerlo vivo. [Queste azioni] dovrebbero scuotere noi adulti dal torpore, come un catalizzatore che ci sproni a organizzare un progetto, veramente portatore di senso, per mettere fine all’occupazione.”
Come abbiamo detto, non possiamo essere schizzinosi sui campi in cui cerchiamo di espandere la lotta. Ogni luogo politico e istituzione sociale è un fertile terreno di scontro per costruire la nostra contro-egemonia.
In poche parole, Jabr riconosce la necessità di una costellazione ampia di lotte, in grado di autoalimentarsi positivamente.
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“La solidarietà del Sudafrica con la Palestina ci dà la speranza per il movimento globale di resistenza alla discriminazione razziale. I palestinesi e i loro sostenitori devono avvantaggiarsi di questo momento storico. Dobbiamo continuare a lavorare in una varietà di cornici e in tutti i contesti, sia attraverso organizzazioni professionali, sindacati, canali d’informazione, sia con manifestanti per le strade.”
Riteniamo che la lente critica che ci offre Samah Jabr – unita alla sua capace lettura sul ruolo dei Movimenti sociali – sia uno strumento importante per i Movimenti occidentali, che in quest'anno di mobilitazione hanno spesso perso tempo ed energie in rituali ciechi, strategie poco lucide e una povera coordinazione collettiva.