07 Luglio 2024
Il Proletariato
è Morto?

Alla Ricerca di una

Soggettività Rivoluzionaria

Cos’ha di speciale il Proletariato?
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Cos’ha di speciale il proletariato?

C’è stato un momento della Storia in cui sembrava che tutti i pezzi del puzzle si stessero componendo a favore della sinistra anticapitalista.

Il capitalismo aveva portato ad una violenta crisi nel ‘29 e l’imperialismo a due guerre mondiali. La ripresa economica del Secondo Dopoguerra è stata possibile solo grazie a ingenti investimenti pubblici.

Nel frattempo, un sedicente Stato socialista – l’Unione Sovietica – registrava dei tassi di crescita economica vertiginosi, e il Sud Globale stava vincendo la lotta per la decolonizzazione.


Negli anni ‘60-’70, il conflitto di classe si incendiò proprio nelle modalità prospettate da Marx un secolo prima: una massa proletaria sempre più riunita nelle fabbriche; la prima ondata di parziale automazione; dei saggi di profitto in caduta libera; una classe operaia organizzata e incontenibile, desiderosa di costruirsi un futuro autonomo e abbondante.


Nel ‘73 esplode la crisi. Sembra che sia una questione di mesi, e prima o poi anche l’Occidente si sarebbe orientato verso un’economia socializzata, anche di più di quanto prospettato dal compromesso socialdemocratico.

L’occasione pareva perfetta per accogliere la spinta propulsiva della classe lavoratrice. Avremmo esteso gli apparati pubblici e ribaltato gli equilibri economici, fino a costruire una democrazia operaia pianificata, definita da abbondanza e tempo libero.


Chiaramente, questo progetto non si è mai materializzato. Anzi, si è distrutto in mille pezzi, sfracellato contro un muro.


Il Post-Fordismo ci ha mandato in sbatti. Non solo abbiamo letto male la contro-rivoluzione neoliberista, ma a malapena ci siamo preparatə al suo arrivo. Ne siamo statə letteralmente travoltə. Tutti i nostri piani sono saltati non appena il Capitale ha messo all’opera una nuova strategia di difesa.


Questo fallimento strategico è stato il risultato di numerosi errori di calcolo: nel momento in cui il Capitale ha risposto agli scioperi delocalizzando le fabbriche tramite i suoi investimenti globali, il Movimento ha iniziato a feticizzare il localismo; nel momento in cui la classe operaia cercava di tenere in vita il conflitto di classe, la Nuova Sinistra flirtava con l’idea Marcusiana che essa fosse ormai inevitabilmente asservita al potere (nel caso socialdemocratico come in quello sedicente socialista statalista); ma, soprattutto, nel momento in cui il Capitale costruiva l’apparato pubblico e di welfare più esteso e innovativo della sua storia, la sinistra si è rifiutata di costruire leverage politico nelle Istituzioni.


Al potere è bastato delocalizzare le fabbriche e lasciar macerare le divisioni tra la Vecchia e la Nuova Sinistra per scardinare ogni nostro punto di riferimento.


Da quel momento in poi (quindi indicativamente intorno agli anni ‘80) il Movimento – soprattutto in Occidente – incasserà una serie di sconfitte difficili da dimenticare: la distruzione delle organizzazioni della classe operaia negli anni ‘80, il fallimento dei riot degli anni ‘90, la dissoluzione del Movimento No-Global negli anni 2000, l’inefficacia di Occupy e del socialismo democratico negli anni ‘10 – solo per citare quelli più famosi.


Ma, soprattutto, il Movimento faticherà sotto due punti di vista fondamentali: la capacità di costruire una sintesi comune tra varie aree di lotta e quella di organizzare un Contropotere efficace, di lunga gittata.


Al tempo stesso, dal Movimento sono emerse anche tante intuizioni e idee innovative. Il problema è che non sono state integrate in un framework sintetico, in grado di imparare dal passato e riprendere quel che è stato perso dopo la “sbornia postmoderna”.


In quest’articolo vogliamo soffermarci su una questione comune ad ogni Movimento, ovvero interrogarci sulle soggettività rivoluzionarie che lo compongono. Senza una classe sociale di riferimento il Movimento fallisce in partenza. Abbiamo bisogno di fare un po’ di chiarezza sulla condizione odierna oggettiva della classe lavoratrice.


Inoltre, ci sembra importante dare degli spunti teorici rispetto ad una nuova politicizzazione dellə lavoratorə, proprio perché è adesso che si apprestano a tornare di nuovo al centro degli equilibri politici.

L’obiettivo è mostrare l’abbozzo di una nuova via, che integri questa spinta propulsiva a quella delle soggettività marginalizzate (che compongono la “popolazione in eccesso”, e su cui si è soffermata, legittimamente, la Sinistra post-68).


Insomma, in poche parole, vogliamo portare avanti una nuova prospettiva sull’intersezionalità.

Perché Proprio il Proletariato?

Questa è la domanda principale da chiederci.

Cos’ha di speciale il proletariato? Per quale ragione Marx – e praticamente qualsiasi movimento anticapitalista – ha scelto questa classe come punto di riferimento? Cosa c’è di rivoluzionario in questa soggettività politica?


La risposta è più semplice del previsto. Specialmente secondo la struttura logica marxista, il proletariato non è la classe “più oppressa”, né quella più intelligente o semplicemente migliore delle altre, in una sorta di classismo all’infinito.

Allargando il campo visivo, il proletariato ha due caratteristiche: il suo reddito non deriva da proprietà messe sotto profitto – cioè non possiede capitale – e produce il valore aggiunto dell’intera economia (il surplus).


Il proletariato diventa soggetto rivoluzionario quando prende coscienza del suo enorme leverage: il fatto che il surplus – la ricchezza su cui si sorregge l’intera struttura economica – è un prodotto del lavoro collettivo dellə proletariə.


La classe lavoratrice, dunque, non è l’unica oppressa, né quella più meritevole di attenzione; piuttosto, è quella che detiene il maggior peso specifico nelle dinamiche di potere contro il Capitale. Il proletariato è l’antitesi universale al capitalismo. È l’unica classe in grado di rovesciare il sistema al livello di astrazione più alto, eliminandolo nella sua interezza.


L’appartenenza alla classe lavoratrice è dunque un catalizzatore per tutte le soggettività specifiche che hanno il potenziale materiale e concreto di accompagnare il Mondo verso un futuro migliore, oltre il capitalismo. Grazie alla funzione specifica che assume all’interno dei processi di produzione, fornisce allə lavoratorə le armi per emanciparsi dalle sue stesse catene.


La classe lavoratrice fa parte del cosiddetto “99%” – un termine molto informale con cui si allude alla popolazione il cui reddito (per intero o in larga parte) non deriva da proprietà messe a profitto. Il restante “1%” del Mondo vive invece di profitti e domina le leggi dell’economia, piegandole costantemente a suo favore. Lə lavoratorə condividono lo spazio con la “popolazione in eccesso”, o “popolazione marginalizzata”.


Questa classe sembrerebbe l’alleata naturale dellə lavoratorə contro il Capitale.

Non solo non possiede proprietà da mettere a profitto, ma non ha nemmeno accesso alle relazioni salariali (oppure ce l’ha in modo limitato e precario).

Insomma, si tratta dellə disperatə della Terra, le persone più marginalizzate.


Eppure più ampio è questo bacino di persone, più persone saranno disposte a vendere la propria manodopera ad un prezzo inferiore di quello di mercato spingendo i salari verso il basso.

In questa contraddizione emerge l’impossibilità di un’alleanza spontanea tra queste due classi sociali, nonostante la fonte della loro oppressione sia la stessa. Gli interessi immediati delle due classi non coincidono “spontaneamente”.

Quest’alleanza, dunque, va costruita strategicamente. È proprio questo il tema che affronteremo verso la fine dell’articolo, quando ci addentreremo nel campo minato dell’intersezionalità.

Fino agli anni ‘70, la classe operaia era visibile. Ammassata nelle fabbriche e sempre più numerosa, rappresentava la più grande spinta propulsiva dell’intero sistema, comportandosi come una vera e propria mina vagante nelle operazioni del potere. La società riconosceva i lavoratori con facilità, ed era chiaro che fossero i responsabili della produzione della ricchezza.


Come spiegheremo meglio più avanti, alla fine degli anni ‘70 le lotte operaie accusano una grossa sconfitta, e tante delle novità politiche della New Left vengono assorbite dal sistema. A questo punto, si sviluppa il post-Fordismo.


Per il capitalismo, questa è un’occasione perfetta per minare di nuovo alla nostra nostra capacità di agire politicamente.


D’un tratto, il limite tra tempo di lavoro e tempo libero sfuma. Le fabbriche si svuotano (specialmente in Occidente), e cominciamo a lavorare su internet. Quando smettiamo di lavorare, continuiamo a passare il nostro tempo sul web, e i nostri dati vengono venduti e acquistati a velocità esponenziali. Sostanzialmente, su internet si deposita una lunga scia di risorse immateriali che il Capitale ha inserito nei suoi specifici processi produttivi.


I punti di riferimento che fino al compromesso socialdemocratico avevano tenuto insieme la sinistra si sgretolano, e il Movimento finisce sepolto dalle macerie.


Da allora si è creata una evidente spaccatura interna, che ha generato aree incapaci di comunicare tra loro. C’è chi vede nella “moltitudine” il nuovo soggetto rivoluzionario, chi vede nel vecchio proletariato una forza ormai intrinsecamente reazionaria, e chi invece pensa che le nuove soggettività queer, nere o femministe siano una “distrazione dalla lotta di classe”. Una cosa è certa: ognunə ha perso l’unica bussola che reggeva in piedi i Movimenti. No Working Class, No Party.


Che fine ha fatto dunque il proletariato? È sparito come sono sparite le fabbriche?


Se nell’immaginario comune l’operaio proletario è strettamente associato alla fabbrica, al secondo settore, e all’industria pesante, da un punto di vista teorico lə proletariə è una persona che produce surplus attraverso il suo lavoro, per poi ricevere in cambio un salario e lasciare i profitti al proprietario.


La coercizione in questo rapporto non è più basata sulla violenza “esplicita” (come invece succedeva con lo schiavismo o lo sfruttamento dei servi della gleba). Il salariato non è costretto a lavorare perché in catene, ma perché vive nel ricatto dell’esclusione sociale, della totale deprivazione economica e di un’esistenza condannata alla marginalità.

Queste queste le caratteristiche comuni e necessarie del salariato, dellə proletariə.


Parlandone in questi termini, la classe lavoratrice non è di certo morta. Ha semplicemente cambiato forma, in un modo così radicale che nemmeno i più lungimiranti teorici sono riusciti a prevederlo del tutto.


Se vogliamo individuare correttamente i punti di leverage di cui abbiamo parlato, dobbiamo sapere come sono cambiati i processi di produzione specifici di questa fase del capitalismo (il neoliberismo) e le conseguenti pratiche di controllo della forza-lavoro.

Il Capitale Assorbe

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Gli anni ‘70-’80 hanno dimostrato che se lo scontro con il Movimento si fa difficile, il Capitalismo diventa incredibilmente flessibile.


Durante il Secondo Dopoguerra, la politica era stata accompagnata da organizzazioni di massa, che coinvolgevano lavoratori, donne e studenti. Il sistema è riuscito a smantellarle, semplificando ulteriormente i processi di accumulazione di capitale e profitti. Tolto l’ostacolo, poi, ha sfruttato il momento di respiro per “sperimentare”, in particolare rispetto ai processi produttivi.


La direzione di questi esperimenti, ovviamente, non è semplicemente caduta dal cielo. Era necessario agganciarsi ai desideri più forti dellə lavoratorə e riorganizzarli in un nuovo paradigma. Siccome la violenza da sola non basta, la repressione violenta degli scioperi e dei riot fu dunque accompagnata dall’assorbimento delle pretese dell’Autonomia Operaia, che riassumeva bene i nuovi desideri dellə lavoratorə.


L’Autonomia poneva l’accento sull’ascesa dell’automazione nei processi produttivi, convintə che il processo avrebbe facilitato il protagonismo di classe, fuori dal controllo soffocante dei partiti e dei sindacati. Gli obiettivi erano dar vita a un lavoro sempre più diluito nella forma di gioco e sperimentazione, l’emancipazione dai ritmi noiosi e autodistruttivi della fabbrica e una maggiore fluidità negli stessi processi produttivi. Erano queste le potenzialità a cui la classe operaia (che si rifaceva all’area operaista della New Left) voleva aggrapparsi per superare le contraddizioni del capitalismo.


Purtroppo, queste innovazioni teoriche sono state assorbite dal sistema: la cultura tech/nerd si rifà esattamente ad un’idea di lavoro sempre più simile ad una sperimentazione giocosa. I ritmi della fabbrica noiosi e ripetitivi sono stati sostituiti da un’incertezza e un’instabilità radicale, figlia di un metabolismo sociale arrivato a livelli estremi. La pretesa di una maggiore fluidità dei processi produttivi ha dato vita al “lavoro flessibile”, ovvero alla precarietà lavorativa.


Con questo non vogliamo dire che le idee dell’Autonomia Operaia fossero “sbagliate”, anzi. Il sistema assorbe solo i progetti che hanno un reale potenziale rivoluzionario, avvicinandosi per disinnescarli prima che possano esplodere.


In una sola mossa, il capitalismo ha fatto sbandare i movimenti e ne ha assorbito la spinta propulsiva.


L’Autonomia Operaia sosteneva che il Capitale non è una forza innovativa, e viene spinto in avanti solo dalle lotte operaie. In una crudele ironia della sorte, la tesi venne confermata proprio dalla sconfitta dell’Autonomia Operaia stessa.

Decenni dopo, questi grossi cambiamenti si sono sintetizzati nella dissoluzione della Fabbrica Fordista e nella diffusione delle Piattaforme Digitali, provocando, a cascata, effetti a lungo termine sulla composizione, forma e potenzialità della classe operaia stessa.

Fabbrica Fordista vs Piattaforma Digitale

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La Fabbrica Fordista e la Piattaforma Digitale sono gemelle di epoche diverse: la prima è stato il modello industriale dominante nel post-Grande Depressione, la seconda detiene il trono nell’epoca odierna.


“Industria dominante” non significa né l'industria più presente, né quella più economicamente efficiente. Piuttosto, è l’industria più brava ad estrarre profitti dal lavoro della classe operaia in un determinato periodo, costringendo tutte le altre industrie ad adattarsi in funzione del suo modello, pena il loro fallimento.


La Fabbrica Fordista si basava su una struttura aziendale verticale: la fabbrica possedeva ogni input di produzione – dalle materie prime ai macchinari, fino all’ultima goccia di sudore dei suoi lavoratori. Quando gli input di una certa sezione costano più del suo contributo marginale, il management taglia immediatamente l’intero ramo.

Lo strumento principale della fabbrica è la creazione di capitale fisso, ovvero quel tipo capitale che si consuma solo dopo tanti cicli di produzione (macchinari che durano decenni, impianti inscalfibili…).


In questo contesto, la strategia migliore per fare più profitti consiste nell’allargare esponenzialmente la scala della produzione: se ho un mega impianto che sicuramente durerà almeno dieci anni, per guadagnarci sarò costretto a produrre il maggior volume di merci possibili in quei 10 anni.


La struttura industriale Fordista si basa dunque sulla produzione di massa, standardizzata. Tante merci tutte uguali tra loro aspettano di essere scambiate nel mercato, per realizzare in profitti il valore generato dalla produzione.


La Piattaforma Digitale è figlia dell’esplosione nella compravendita dei dati personali e dello spazio virtuale in rapida espansione – l’Internet.

Al contrario della fabbrica, ha una struttura industriale “orizzontale”.

Uber, ad esempio, non possiede nessun taxi, così come AirBnb non possiede nessuna casa. L’obiettivo non è più quello di “fissare capitale”, perché esso è diventato “liquido”; le sue “molecole” vengono affittate di azienda in azienda, continuando a spostarsi sul web senza mai avere proprietari diretti.


Piattaforme simili basano i loro guadagni sulla monopolizzazione dello spazio virtuale, che viene poi utilizzato per permettere ad operatori economici (produttori e consumatori, affittuari e palazzinari, azienda A e azienda B) di interagire l’uno con l’altro. Questo spazio viene dunque affittato in porzioni centellinate, massimizzando profitti e attirando le pubblicità di moltissime altre aziende. Diventa prioritario attirare più interazioni possibili, spesso anche attraverso operazioni in perdita.


Prendiamo, ad esempio, Amazon.

Controintuitivamente, non solo Amazon non fa profitti sulla consegna dei pacchi o sui libri del Kindle, ma addirittura queste attività sono in rosso, ovvero generano perdite per Amazon.

Il motivo per cui rimangono attive è che costituiscono a tutti gli effetti i costi di attrazione nella piattaforma stessa, su cui solo in un secondo momento Amazon costruisce i suoi profitti (in gran parte attraverso il suo software, Amazon Web Service).


Se quindi la Fabbrica Fordista ha dato vita alla produzione di massa, la produzione della Piattaforma Digitale è sempre più personalizzata, ed è mirata ad attrarre sempre più persone in uno stesso network, vendendo tanti dati quanto spazi pubblicitari.

Basti pensare che, ad esempio, Google e Facebook ricavano tra l’85% e il 95% dei loro introiti dalle pubblicità che scorrono nelle loro piattaforme.


Potete trovare i riferimenti dei dati citati in questo video di Nick Srnicek. Per approfondire, consigliamo il suo libro “Platform Capitalism”, che analizza proprio le nuove strutture di business che hanno trainato l’accumulazione di capitale dagli anni ‘90 ad oggi.

A questo si aggiunge anche il fattore globalizzazione. Abbattendo i costi della mobilità, molti investimenti sono stati attratti dalla logistica.

Da questo processo nascono le “global supply-chains”, interi settori economici che coordinano il trasporto di merci su scala globale.

Le Trasformazioni nel Mondo del Lavoro

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La classe lavoratrice è stata stravolta dalle dinamiche che abbiamo finora descritto, fino quasi a diventare irriconoscibile. Oggi la troviamo fuori dalle fabbriche, dentro gli uffici o addirittura a casa, bloccata nelle catene della logistica globale o all’interno di piattaforme digitali enormi.


La classe operaia della Fabbrica Fordista era omogenea e semi specializzata, con alcuni sparuti elementi sotto-specializzati e altamente specializzati.


Oggi regnano nuove forme di controllo della forza-lavoro e l’operaio-massa semi-specializzato è o decaduto nel precariato sotto-specializzato, oppure si è trasformato nel cognitariato specializzato.


Questo processo ha portato ad una crescente differenza di status economico all’interno alla classe lavoratrice, spezzando uno dei processi impersonali e oggettivi che alimentavano la solidarietà spontanea tra lə lavoratorə: una condizione economica pressoché identica.


Ma, soprattutto, nelle industrie dominanti (il settore tech, i servizi essenziali e le catene logistiche) si è creata una polarizzazione tra chi produce surplus (lavoro produttivo) e chi lavora unicamente per attirare più persone possibili nel network della sua Piattaforma senza generare necessariamente profitti (lavoro improduttivo).

Paradossalmente, il rapporto tra lavoro improduttivo e produttivo si è sbilanciato a favore del primo.


Quando parliamo di “produttivo” o “improduttivo” non ci riferiamo a un qualche valore etico-morale: i processi di produzione non conoscono questa lingua. Questi due termini sono usati per descrivere due funzioni differenti, interne alla classe lavoratrice, nella produzione di surplus. Una parte si occupa di modificare effettivamente gli input di produzione aumentandone il valore economico: questo è agli occhi del Capitale lavoro “produttivo”. Un’altra parte si occupa di conservare e realizzare questo lavoro già prodotto in precedenza. Entrambi sono fondamentali per il sistema, ma mantengono due funzioni specifiche differenti.


Se ieri il lavoro improduttivo dominante era assicurarsi che le merci non venissero rubate, che i macchinari continuassero a funzionare e che ci fossero reali clienti sul mercato, oggi è assicurarsi di fornire servizi, spesso anche in perdita per attirare utenti nel network della Piattaforma per cui si lavora.

Oggi il lavoro improduttivo crea la monopolizzazione necessaria affinché i settori produttivi siano in grado di macinare profitti a ritmo vertiginoso. Dunque esso aumenta di volume e cambia di forma, influenzando la distribuzione del valore aggiunto prodotto dallə specifichə lavoratorə.


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Nelle fabbriche ogni lavoratore faceva la sua piccola parte in un piccolo tassello produttivo di surplus, oggi il sistema ha bisogno di tante persone che creino le condizioni adatte per attrarre interazioni economiche, e di un gruppo più ristretto che trasforma queste interazioni in ricchezza.

Nella pratica, le persone che consegnano i pacchi Amazon svolgono un lavoro improduttivo – ma comunque necessario al Capitale – mentre chi crea i software e algoritmi su cui si fondano i profitti delle Piattaforme Digitali svolge un lavoro produttivo.

Nuove Forme di Lotta di Classe

Il nuovo contesto economico ha reso obsolete diverse forme di boicottaggio adottate dalla sinistra radicale – sia quelle tradizionali (sciopero, occupazione delle fabbriche, nazionalizzazione), sia quelle della Nuova Sinistra (basate sulla conquista di spazio fisico-sociale e sulla soggettività della “Moltitudine”, esplicitate in manifestazioni molto sceniche e azioni dirette contro le Multinazionali). Si chiudono sicuramente tante porte, ma se ne aprono anche di nuove.


Prendiamo come esempio gli scioperi e le occupazioni delle fabbriche. Essi funzionavano perché ogni lavoratorə contribuiva in modo simile alla quantità marginale di surplus prodotta. La relazione tra numero di persone che incrociano le braccia e danno economico arrecato al padrone era lineare: più persone scioperano, più ricchezza viene drenata dal sistema. Le organizzazioni anticapitaliste avevano un’unica priorità: organizzare scioperi nei settori dominanti dell’epoca, figli della nuova ondata tecnologica di quel tempo, per drenare ricchezza direttamente nel cuore pulsante.


Oggi, come abbiamo visto, i settori dominanti hanno una composizione diversa tra lavoro produttivo e improduttivo, dunque uno sciopero che “spara nel mucchio” non funziona necessariamente. In tutto questo, i processi di automazione hanno reso il lavoro mano a mano più marginale nell’economia totale; la precarietà ha complicato l’organizzazione dei posti di lavoro, condannandoli ad un’instabilità che rende difficile far progetti.


Al tempo stesso anche l’azione diretta e la riconquista di spazi di alternativa “autosufficienti” risulta fondamentalmente obsoleta.

La creazione di ricchezza dipende ormai più dalle nostre interazioni che dal nostro lavoro. L’economia ha spezzato il lavoro in mille piccoli pezzi, e ha esasperato l’interdipendenza tra il sistema e gli individui.

Non è logico pensare che delle azioni localizzate e di breve durata – o anche degli spazi isolati autogestiti – siano, da sole, capaci di drenare ricchezza dal sistema in modo fluido e continuo.


Il nuovo assetto del Capitale, però, ha creato altre strade e altri punti di leverage, che faremmo bene ad esaminare con attenzione.

Quando Mark Zuckerberg comprò WhatsApp, i suoi dipendenti risultavano intorno alla quarantina di persone. Su di loro pesava un enorme leverage economico, proprio perché il lavoro è diventato progressivamente più informale, precario, fuori dai contratti, e la specializzazione è stata di conseguenza centellinata al minimo.


Se queste quaranta persone avessero deciso di scioperare, avrebbero causato una frattura economica impensabile anche per i sindacati più conflittuali degli anni ‘20.

Questo è un nervo scoperto del sistema mai visto prima d’ora e con un potenziale ancora inesplorato.


Insomma, col fatto che il lavoro è stato ridotto all’osso nei processi di produzione, abbiamo un leverage economico importantissimo dalla nostra parte: ogni ora di lavoro ha un peso specifico maggiore di qualsiasi altra epoca dalla Rivoluzione Industriale e sottrarle ai comandi del Capitale vuol dire mettere molta più sabbia nell’ingranaggio capitalista a parità di “sacrificio”.


Ce ne rendiamo conto soprattutto nel settore della logistica, dove anche solo decine di portuali che incrociano le braccia possono realmente paralizzare un’economia intera.


Un altro importante punto di leverage lo troviamo nella grande varietà di funzioni che diversə lavoratorə hanno all’interno del sistema. Infatti, questo permette alle organizzazioni del lavoro di specializzarsi su pratiche ad hoc, calate nel contesto lavorativo a cui si fa riferimento.


Da qui può nascere la costellazione di lotte di cui parliamo spesso, dove ognuno ha il suo posto specifico all’interno di un progetto comune e universale – dalle organizzazioni dellə lavoratorə essenziali a quelle della logistica, dal lavoro specializzato produttivo al lavoro cognitivo delle grandi Piattaforme Digitali.

La struttura stessa dei gruppi scoraggerebbe la centralizzazione delle lotte interne all’apparato produttivo con i suoi rischi di burocratizzazione, autoritarismo e soffocamento della creatività politica dal basso.


Ma per ora al Movimento non è chiaro come sfruttare il fatto che il lavoro è diventato sempre più marginale nella produzione economica. Questo, sicuramente, indebolisce il potenziale della classe lavoratrice.

Inoltre, durante il Fordismo e l’era delle fabbriche, lo sforzo della classe lavoratrice era sorretto dai Partiti Socialisti e Comunisti e dalle organizzazioni sindacali, che pompavano in alto la pressione dei salari – i sindacati nei posto di lavoro, i Partiti nel confronto istituzionale. Appena il meccanismo si è inceppato, i salari hanno intrapreso una spirale verso l’inferno.


Cosa potrebbe dunque amplificare ulteriormente il leverage della classe lavoratrice di oggi, in un contesto in cui il lavoro diventare sempre più marginale e frammentario?


Il Reddito di Base Universale è sicuramente un ottimo inizio. Da un punto di vista tattico è incredibilmente funzionale, in quanto asseconda due tendenze strutturali del capitalismo odierno, piegandole a favore della classe lavoratrice.


La tendenza alla marginalizzazione del lavoro si può rendere politica. Se il lavoro necessario è sempre meno tanto vale fornire le condizioni per poter decidere se lavorare o meno (e a quali condizioni), rimuovendo dall’equazione la coercizione economica tipica del capitalismo. Al tempo stesso, fornirebbe una comoda base su cui adeguare il livello degli stipendi.


Questa riforma — potenzialmente unita ad un controllo dei prezzi dei beni essenziali – sfrutterebbe contro il sistema alcune sue tendenze intrinseche e dominanti.


Proviamo adesso a tornare alla domanda da cui siamo partitə. Cosa rende una soggettività rivoluzionaria?

Una soggettività può diventare rivoluzionaria quando è in qualche forma oppressa dal sistema in cui vive (e dunque ha un interesse implicito a liberarsene) e quando la sua funzione sociale le fornisce dei leverage sul quale poggiare le sue rivendicazioni. Ogni discorso che parla di soggettività politica senza concentrarsi su queste due componenti lascia il tempo che trova. È fondamentalmente inutile.

Una Nuova Intersezionalità

Ricapitolando: abbiamo visto perché la classe lavoratrice è un soggetto rivoluzionario. Abbiamo visto anche che è la classe che ha accesso ad un leverage fondamentale (la produzione del surplus), in grado di sconvolgere l’equilibrio capitalista nella sua interezza.


Abbiamo anche visto che lə lavoratorə condivide lo spazio del 99% con la popolazione marginalizzata, e che questa condivisione è spesso percorsa da tensioni. Gli interessi immediati delle due classi non coincidono. La popolazione marginalizzata compete per abbassare il costo della sua forza-lavoro, e di conseguenza mina la stabilità lavorativa di chi è (relativamente) più privilegiato. La classe operaia, dal canto suo, storicamente è stata disposta in diverse occasioni a far ricadere i costi della crisi sulle popolazioni marginalizzate per salvarsi la pelle.


Nel lungo periodo, invece, le due classi hanno lo stesso obiettivo: la conquista della ricchezza collettiva e l’equidistribuzione del lavoro e della fatica.


L’egemonia politica del futuro si gioca in questa partita. L’estrema destra spinge per far valere gli interessi a breve termine – dividendo le due classi – e la sinistra radicale – quando è in forma – politicizza gli interessi comuni e li programma a lungo termine.


Purtroppo, la popolazione in eccesso è stata spesso bistrattata dalle prime generazioni di marxistə. Il “sottoproletariato” era ai loro occhi una classe che non valeva la pena politicizzare, perché l’operazione avrebbe inevitabilmente fatto “backfire”. Bisognava invece puntare alla piena occupazione, così da dover politicizzare solo il proletariato e trasformarlo dunque in una classe più solida.

In un primo momento la strategia ha pressoché funzionato, ma ad oggi si sta rivelando insostenibile.


In Occidente, il discorso comincia a cambiare dopo gli anni ‘60, soprattutto grazie alle intuizioni teorico-pratiche delle Black Panther. Partendo dalla prospettiva della popolazione marginalizzata americana (in particolare nera e povera), è diventato possibile costruire un’alleanza con la classe operaia, rispettando gli interessi di entrambi i gruppi sociali.


Ci rendiamo dunque conto a posteriori che la “piena occupazione” è un progetto insostenibile. In questo senso, oggi è fondamentale recuperare la legacy politica delle Black Panther, proprio perché le operazioni del Capitale producono un’allarmante marginalizzazione sociale.


Questa analisi - incentrata sulla ricerca dei processi che acuiscono la tensione tra classe lavoratrice e popolazione marginalizzata – ha gettato i semi dell’innovazione più importante della Nuova Sinistra: l’intersezionalità.


Chiunque pensi che l’intersezionalità sia in qualche modo una distrazione dalla lotta di classe non dovrebbe aver posto all’interno dei Movimenti.

Il potere ha sì, cooptato questo strumento per i suoi fini, ma questo non vuol dire che allora l’intersezionalità sia una prassi inutile o tanto meno liberale. Un’analisi del genere è semplicemente ridicola, cieca davanti ai meccanismi politici che ci governano. Il sistema, (come abbiamo detto anche prima) co-opta proprio le innovazioni più popolari e pericolose del Movimento come strategia di difesa dalla loro sovversività.


Al massimo, la colpa è nostra, che ci facciamo strappare le innovazioni dalle mani. Veniamo coltə impreparatə, privə di una solida infrastruttura sociale, e finiamo per dare le nostre risorse in pasto al nemico.


D’altra parte, alcune delle critiche elaborate nei confronti dell’intersezionalità (specie negli ultimi decenni) sono assolutamente legittime.

Sembra che ci siano due problemi principali: intanto, ci si concentra in modo spropositato sulle micro-forme di oppressione, spesso omettendo il ruolo che gioca la classe economica di appartenenza; in secondo luogo, ci si arena su tentativo – vago, sterile, e spesso vano – “di proteggere le nostre comunità”, tralasciando l’enorme potenzialità degli specifici leverage sociali a cui ha accesso ogni soggettività oppressa.


Da una parte, l’analisi di un sistema di oppressione così non può essere fondato sulle sue manifestazioni più effimere. È interessante indagare il modo in cui privilegi e discriminazioni si manifestano nel quotidiano, ma, se questo tipo di riflessione si adatta bene ai percorsi di autocoscienza, non è la priorità su cui puntare se stiamo cercando di organizzare una rivoluzione.

Non possiamo perdere di vista il contesto e la gerarchia in cui operano le discriminazioni che ci opprimo. Soprattutto, non possiamo dimenticare che il nostro futuro si gioca principalmente su due tiri di dado, che determinano dove nasciamo (in Occidente, o in un paese drenato dalla colonizzazione?) e dalla nostra relazione con la classe capitalista (ne siamo parte, o ne siamo oppressə?).


Il confine immaginario Nord del Mediterraneo e Sud di questo stesso mare è la linea politica che separa un migrante da redditi 600 volte superiori a quelli che farebbe senza varcare quel confine. Già solo questo dato, dal nostro punto di vista, non sta ricevendo dal Movimento l’attenzione che merita.


La parte più importante dell’intersezionalità, in realtà, è quella che abbiamo finora ignorato: la ricerca di quelle contraddizioni sistemiche su cui ogni soggettività può fare leva per mettere pressione politica contro le Istituzioni e il Potere.


L’intersezionalità è probabilmente lo strumento analitico più rivoluzionario uscito dalla Nuova Sinistra, specie quando è integrato con una critica Marxista sulle altre forme di sfruttamento (è il caso del Femminismo degli anni ‘70, del Marxismo Nero e Indigeno, del Comunismo Queer e dell’Ecosocialismo). Grazie a questo concetto si sono aperte nuove forme di radicalizzazione e di sperimentazioni politiche, sono nate nuove strutture organizzative e abbiamo iniziato a sognare nuovi obiettivi.


Inoltre, essa ha fornito alla grande maggioranza delle classi oppresse degli strumenti fondamentali per proteggersi.

C’è sempre stata una parte del Movimento che, pur oppressa in quanto lavoratrice, gode di una serie di privilegi “invisibili” che usa – consciamente o inconsciamente - per guadagnarsi dei diritti esclusivi. L’intersezionalità ha creato un linguaggio e un contesto dove è possibile limitare questi abusi.


Agli inizi, il leverage su cui basare la propria forza politica per imporre le proprie condizioni sull’economia era un focus importante dell’agire politico stesso.

Le soggettività femministe sapevano di essere responsabilə del lavoro riproduttivo e di cura, un lavoro che se non performato avrebbe messo in ginocchio la riproduzione fluida dei meccanismi di accumulazione; le soggettività nere e indigene si erano organizzate per difendersi con le armi dalla brutalità della polizia; le soggettività queer sapevano come auto-organizzarsi, sia nelle loro comunità che in particolare in ambienti collegati al sex-working.


Le elaborazioni più recenti del quadro intersezionale, purtroppo, mancano di un’analisi costruttiva. Ci concentriamo soltanto sulle caratteristiche dell’oppressione, come se bastasse semplicemente “mostrare” ad ogni persona discriminata la causa di tutti i mali, e questa spontaneamente e magicamente scenderà in piazza a protestare. In realtà, “sentire” l’oppressione sulla pelle non basta a trasformare nessuna persona in una rivoluzionaria. Anzi, al massimo, genera solo disfattismo e nichilismo politico.


Se vogliamo alimentare una moltitudine di lotte trainate da una costellazione di soggettività diverse, dobbiamo trasformare le soggettività da oppresse a rivoluzionarie, dallə precariə più marginalizzatə all’operaiə più privilegiatə.


Per intraprendere un percorso rivoluzionario, è necessario avere accesso a delle alternative sociali reali, solide, di larga scala, che funzionino sia nel breve che nel lungo periodo. Le persone devono in primo luogo avere il tempo di buttare fuori le tossine del capitale, e poi l’occasione costante di respirare la nostra politica, fino a quando non verrà assorbita dalla marea.

L’unico modo per costruire queste infrastrutture è sfruttare un leverage, una fonte di potere.


Il nostro compito è porci sempre le stesse due domande: quali sono i punti di forza specifici di questa particolare soggettività? Qual è la funzione specifica che questo gruppo assolve all’interno della riproduzione sociale, quella che se non performata (o se viene performata in modo diverso) rallenta, manomette o distrugge i progetti del Capitale?


Abbiamo attraversato un periodo di dilagante sterilità politica all’interno della sinistra radicale. C’è bisogno di una nuova intersezionalità, che distolga lo sguardo dall’analisi delle differenze di oppressione, e si interessi ai punti di forza sociali che possiedono le varie soggettività.

Non solo: siccome sappiamo bene che ogni lotta è interconnessa – ma al tempo stesso specifica – è necessario anche indagare il modo in cui le lotte si influenzano reciprocamente.

Quali strade si possono aprire nelle lotte sul lavoro per rinforzare automaticamente quelle sul clima, sul razzismo o sul femminismo (e viceversa)? Qual è la soggettività che su un determinato tema ha accesso ad un leverage significativo, e quindi può prendersi la responsabilità di fare da capofila in quella specifica lotta?


Ma, soprattutto, come facciamo a sfruttare questi punti di leverage? Come tiriamo fuori il massimo da situazioni di marginalità che, per definizione, costituiscono sia un’ampliamento dell’orizzonte del possibile, sia una condizione politica incredibilmente drammatica?


Purtroppo, l’intersezionalità si è arenata in una sterile autoreferenzialità, basata sull’illusione che tutte le persone oppresse si comprendono a vicenda, anche quando vivono due esperienze completamente diverse e in contraddizione tra loro.


Non basta enunciare il comune denominatore delle oppressioni per generare la solidarietà multistrato necessaria ad ogni progetto intersezionale. La politica è contraddizione, e dobbiamo imparare ad adattarci alla realtà.

Conclusioni

In Occidente, l’immagine del proletariato sta sicuramente morendo. La forza-lavoro delle fabbriche non è più dominante, e, al contrario, si presenta più come uno strascico di un regime di accumulazione ormai obsoleto.

Il proletariato come soggetto creatore di surplus, però, non è assolutamente morto. E anzi, oggi è più vivo che mai.


Dopo decenni di quiete, la classe lavoratrice scalpita per tornare protagonista della politica. Siccome è stata abbandonata a sé stessa, lo sta facendo con una serie di contraddizioni interne, ed è nostro compito scioglierle prima che lo faccia l’estrema destra.


La classe lavoratrice è cambiata, ha subito una violenta metamorfosi di cui nessunə è contento. Sopra ogni altra cosa, il suo ruolo all’interno del processo di produzione si è alleggerito – il che è una pessima notizia solo se non sappiamo leggerla come un punto di leverage a favore del 99%.


Al tempo stesso, sempre più persone vengono espulse dai processi capitalistici, riempiendo le file della popolazione “in eccesso”, costretta a forme estreme di marginalità sociale. Lə lavoratorə e le soggettività marginalizzate hanno un’unica vera opzione: allearsi per sovvertire realmente l’ordine costituito.


Saranno necessari dei passi in avanti da entrambe le parti.

La classe lavoratrice, invece di ascoltare l’estrema destra e incolpare dei suoi mali altre persone oppresse, deve ricostruire una cultura di odio nei confronti dei datori di lavoro. L’analisi intersezionale d’altra parte deve tornare ad indagare le condizioni comuni al 99%, che possono poi essere trasformate in punti di potere collettivi contro il Capitale.


Il primo step potrebbe essere davvero il Reddito di Base Universale. Una riforma del genere ci permetterebbe di politicizzare le condizioni di marginalità economica del lavoro nei processi di produzione e le condizioni sociali che ne vengono fuori. Il 99% avrebbe un leverage importante per costruire momentum, alimentando delle nuove lotte di un decennio che si preannuncia incandescente.


La rivoluzione, insomma, è ancora possibile, ma va costruita.

A questo punto, non abbiamo molto tempo e non possiamo perderci in chiacchiere – dobbiamo concentrarci su dei punti strategici di leverage, coinvolgere le soggettività che hanno realmente la potenzialità di smantellare il Capitale, e ri-programmare l’apparato produttivo per creare ricchezza per tuttə.