19 Settembre 2024
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Natə con la Voglia
di Avere di Più
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I Saw The TV Glow è un incubo, in tutto e per tutto. Eppure, in qualche modo, ci lascia pienə di speranza.
#isawthetvglow
È domenica sera. Sto facendo vedere I Saw The TV Glow ad una mia amica.
La scena stacca sul nero per l'ultima volta, e la mia amica rimane impassibile, seduta in silenzio con gli occhi lucidi e lo sguardo attento. Sul tavolo della cucina: cartoni di pizza vuoti, un paio di birre e un pacchetto di sigarette. Lo schermo del mio computer riflette i nostri volti, incurante del silenzio, e la mia amica aspetta.
Alla fine non riesco a trattenermi. “E questo è tutto”, annuncio, giusto un paio di secondi prima che partano i titoli di coda.
La mia amica mi guarda, il volto illuminato dallo shock. Raramente l'ho vista così concentrata, così innervosita da una storia che l'ha incantata dall'inizio alla fine.
“Aspetta”, mi chiede. “Cosa?”
I Saw the TV Glow è un film freddo e asfissiante, immerso in una profonda solitudine. Le scene si trascinano in avanti balbettando, si sistemano con imbarazzo in angoli scomodi, accecando chi guarda con una luce pungente, perennemente accesa, pesante proprio perché non succede mai niente.
L’effetto è quello di una ripresa a rallentatore. In un certo senso, I Saw The TV Glow è una natura morta, riscaldata solo da alcuni colori caratteristici e da una spiccata eleganza visiva.
La trama della storia si regge in piedi a malapena. Un bambino diventa un adolescente e poi un adulto. Le amichə al centro del film si incontrano a scuola e cominciano a seguire insieme una serie TV molto intrigante. Ad un certo punto, la serie si interrompe bruscamente e una delle due ragazzə scappa via, semplicemente scompare nel nulla. Anni dopo, decide di tornare indietro per l’ultima volta.
Una descrizione del genere, per quanto accurata, non fa onore ad un film così particolare. Sì, questa è una storia in cui le cose accadono e i personaggi crescono, ma il ritmo degli eventi non è cronologico e segue con aperto disinteresse le tappe importanti della vita.
Il ritmo è quello di una poesia, che procede non per capitoli ma in versi. Non c’è un vero contesto per quel che succede, e la voce narrante non sente il bisogno di giustificarsi. Come un quadro espressionista, la storia rappresenta le cose non per come sono, ma per come le ricordiamo. La logica dei sogni confonde le acque, sommerge ogni fotogramma con una set surreale di priorità inconsce.
In questo film, le conversazioni avvengono solo in stanze vuote, giganteschi supermercati, salotti sconosciuti a luce spenta. Conflitti cruciali si sciolgono in campi da calcio deserti, a scuola solo quando non c’è nessun altro, su un pavimento sporco e sottoterra.
I sogni - come le poesie - non hanno la pretesa di risultare realistici. Anzi, il realismo è solo d’intralcio per un narratore che sa esprimersi solo attraverso delle metafore.
Quando sogno la casa della mia infanzia, il giardino è tutto sbagliato, il soggiorno è troppo grande, persone che ho conosciuto solo a vent'anni si presentano ai piedi del mio vecchio letto, ed io li saluto con la mano, incredula ma serena, come se in qualche modo tutto avesse il suo senso. Sono capace di sognare la mia prima casa soltanto attraverso la mia malinconia e sotto il peso delle mie mancanze.
Ho sempre ricordato molto bene i miei sogni. Un miracolo e una benedizione, considerando che più che altro faccio incubi.
Nonostante tutto, però, le mie notti preferite non sono quelle in cui la mia bisnonna mi accoglie in paradiso, o quelle in cui sfrutto un momento di lucidità per fare un tuffo in mare dalla vela di una nave pirata. Piuttosto, ho sempre adorato quei rari incubi che ti lasciano con qualcosa di molto più prezioso del terrore: la speranza.
I Saw The TV Glow esplora in modo piuttosto letterale la morfologia di un incubo, e l’atmosfera si adatta perfettamente alla definizione. Guardarlo mi ha lasciato senza parole, e forse mi ha anche un po’ spaventato.
Eppure, quando una domenica sera ho proposto ad una mia amica di guardarlo, ho dimenticato di spiegare quanto fosse cupo. Ho dovuto fermare il video a metà della prima scena soltanto per metterla in guardia ed assicurarmi che fosse nell’umore giusto per un un horror psicologico.
I brutti incubi ti lasciano sveglio per ore, esausto per tutto il giorno, terrorizzato dalla prospettiva di tornare a dormire. Un bell’incubo ti sveglia di soprassalto. Un bell’incubo ti permette di riprendere fiato quando tutto è finito, ma poi ti rimane addosso per giorni, anche quando il malessere è sbiadito e il tuo corpo ha superato il disagio.
Perché ti faccio paura? continua a chiederti. E perché te ne vergogni?
Sono i primi di agosto e stiamo camminando verso il fiume. Il sole sta per tramontare. È da ore che parliamo degli argomenti più disparati, ma adesso la conversazione è finalmente tornata sul film.
Non riesco a smettere di parlarne. Oggi l’ho visto per la terza volta, e Mille è la seconda persona che convinco a vederlo.
“È che descrive così bene la solitudine”, dico a Mille. “Ti fa sentire davvero isolato”.
Quando avevo 13 anni, ho passato una nottata nel bagno dei miei genitori. Mi ricordo di aver pianto disperatamente fino alle quattro del mattino, nella flebile speranza che mia madre si svegliasse e sapesse cosa dirmi. Mi ricordo che alla fine l’ho dovuta svegliare io e ho cercato di spiegarle cos’era successo: il mio personaggio preferito era appena morto ed io non riuscivo a smettere di pensarci. Quando mia madre ovviamente non ha saputo cosa dirmi – come si fa a gestire un'adolescente perennemente disperata che si lamenta sempre e solo di paure irrazionali? – ricordo di aver accettato passivamente la sconfitta. Mi ricordo di aver pianto fino ad esaurimento forze, fino a che il mio corpo non si è arreso e mi ha lasciato dormire.
“So che mi piacciono i telefilm”, dico, una volta tornato al me ventiquattrenne. Sto citando la scena del film in cui lə protagonistə cerca di spiegare la propria sessualità e fallisce miseramente. “È così vero. Letteralmente io da adolescente.”
“Anch'io mi sentivo così”, risponde Mille. “Penso che sia normale. Da bambino non sai che non sei solo. Non hai modo di saperlo. Qualcuno deve insegnartelo.”
Alla fine mangiamo le nostre pizze nel buio totale, seduti proprio sul bordo del fiume. Parliamo delle nostre vecchie cotte, dei nostri obiettivi e delle nostre paure. Parliamo delle persone che ci mancano e degli errori che abbiamo commesso, di sogni infranti e tempo perso.
La solitudine è parte dei miei pensieri per tutto il tempo, ma stasera non credo di sentirmi solo. Nemmeno un po’, nemmeno per un singolo secondo.
La mia definizione preferita di poesia è di John Berger. Dal suo libro And Our Faces, My Heart, Brief as Photos:
- Le poesie, anche quando sono poesie narrative, non assomigliano a delle storie. Tutte le storie parlano di battaglie, di un tipo o di un altro, che finiscono con una vittoria o una sconfitta. Tutto si muove verso la fine, quando si conoscerà l'esito degli eventi.
- Le poesie, indipendentemente dalle conclusioni, attraversano i campi di battaglia, curano i feriti, ascoltano i monologhi selvaggi dei soldati trionfanti e di quelli dominati dal terrore. Portano con loro una sorta di pace. Non agiscono per anestesia o attraverso una facile rassicurazione, ma piuttosto ci riconoscono, promettono che ciò che è stato vissuto non scomparirà mai come se niente fosse successo.
Si parla spesso del tipo di “rappresentazione” che meritano le persone emarginate, ma la verità è che il contenuto di una storia da solo ci dice ben poco. È la cornice che conta.
Quando parlate di un campo di battaglia, lo state facendo dalla prospettiva di un comandante che guarda dall'alto verso il basso i civili meno fortunati? Ci state spiando da un buco nel terreno, al sicuro e non visti? Siamo noi i perdenti e – in tal caso – dovreste essere voi a salvarci?
Se avete mai sentito parlare di trauma porn, sapete a cosa mi sto riferendo. Dall’esterno, è facile descrivere la marginalità come uno spazio doloroso, con la stessa curiosità di un automobilista che rallenta sulla scena di un incidente stradale. Come scrisse una volta Susan Sontag,
- “La rappresentazione di queste crudeltà non ha alcun valore morale. È una pura provocazione: riesci a guardare una cosa del genere? C’è la soddisfazione di farcela e il piacere di fissare l'immagine senza trasalire. C'è il piacere di trasalire.”
Per quanto mi riguarda, tuttavia, una buona poesia - una di quelle che attraversa i campi di battaglia, cura i feriti, ascolta i monologhi selvaggi dei soldati trionfanti e di quelli dominati dal terrore - non è mai del tutto disperata, e raramente è classificabile come trauma porn.
La maggior parte della poesie è personale e priva di contesto. L'atto di scrivere il proprio dolore – di lasciare che venga ricordato – implica il desiderio di trasmetterlo a un pubblico, la convinzione che in qualche modo ne valga la pena. Forse, è merito di quel senso di pace che una poesia porta a chi legge. Non attraverso un anestetico (fai finta di non sentire dolore) o con una facile rassicurazione (andrà tutto bene), ma tramite il riconoscimento. Ciò che è stato vissuto non scomparirà mai come se niente fosse successo.
I Saw The TV Glow parla di solitudine. Parla dell'orrore di sopravvivere e della vergogna di fallire in silenzio, debilitatə da ferite che nessuno può vedere.
Alcuni di noi sono fortunatə: quando il peggio è passato, riusciamo a vivere.
Riemergere dalla terra dopo essere stati sepolti vivi, però, non è un'impresa facile. Milioni di battaglie vengono perse e vinte in continuazione.
La situazione è così grave che alcune domande sorgono spontanee. Cosa succede se si è in minoranza, se il resto del mondo ci ha da tempo abbandonato? Cosa succede se effettivamente non hai l'energia, il tempo o la forza fisica per scrivere la tua poesia? Cosa succede se semplicemente non hai voglia di provarci?
Nonostante I Saw The TV Glow passi gran parte del suo tempo ad esaminare la solitudine dei suoi protagonisti, ci sono comunque dei momenti di sollievo, delle finestre aperte verso un mondo più gentile. Di solito, questi momenti funzionano soltanto quando le due amiche sono insieme.
Il loro rapporto non illumina le stanze, non stravolge le loro giornate, non è abbastanza per renderle felici, e non si può nemmeno dire che risolva i loro problemi. Oltretutto, il loro legame è difficile. Le costringe a mentire ai loro genitori e ad affrontare i mostri da cui stanno entrambe cercando di sfuggire. È una scommessa con un'alta posta in gioco e una ricompensa incerta.
Eppure, le loro conversazioni sono reali. L'affetto che provano l'una per l'altrə fatica a resistere al tempo, ma loro continuano lo stesso a provarci. A forza di scambiarsi cassette in camere oscure, si costruiscono un rifugio; si incontrano attraverso la nebbia, in un angolo dell'inferno dove il fuoco brucia un po' meno.
La scena più calda del film comincia poco dopo il ritorno dell’amica scomparsa. Lə due protagonistə chiacchierano in un pub, mentre un paio di artisti si esibiscono sullo sfondo, in piedo su un piccolo palco. Per l'unica volta in un'ora e quaranta minuti di filmato, la stanza in cui sono è piena di estranei, e la loro presenza non è percepita come un pericolo.
L'amica appena tornata parla all’altra del suo viaggio, le racconta del suo passato lontano dal campo di battaglia. A quanto pare è stato difficilissimo riemergere. Ha fatto tanto male e ci è voluto tanto tempo. Se è tornata qui, a visitare l'inferno per l'ultima volta, è soltanto perché la sua amica è ancora bloccata tra le fiamme. Sapevo che dovevo tornare, le dice. Sapevo che dovevo tornare per salvarti.
In sottofondo, due artisti suonano una canzone dolce e malinconica. Il testo dice:
La definizione di John Berger ha una conclusione molto bella.
Ma la promessa non è quella di un monumento, dice. (Chi, nel mezzo di una battaglia, vuole costruire monumenti?) La promessa è che il linguaggio ha riconosciuto – ha dato rifugio – all'esperienza che chiedeva, che pretendeva di essere ascoltata.
Indipendentemente da qualunque conclusione, Isabel nasce con la voglia - la pretesa - di avere di più. Qualcosa in lei brilla. Magari non brillerà mai più, ma sarà sempre capace di farlo.
Si tratta di una piccola consolazione rispetto ad una vita di agonie, ma forse questo è tutto ciò che la buona arte è in grado fare. Non cambierà il mondo – non da sola – ma in alcuni casi può fornire un riparo. Può aiutarci a ricordare.
Per certe persone, una piccola finestra di sicurezza emotiva può fare una grande differenza; per il pubblico di questo film, sembra che la strategia abbia funzionato.
Se ho guardato I Saw The TV Glow, è perché è piaciuto allə mie amicə. Perché ho visto numerosi video di persone trans che uscivano dal cinema in lacrime, senza parole, scossə e commossə da quel che avevano appena visto.
Nelle settimane seguenti all’uscita del film, c’è stata una citazione in particolare che è cominciata a circolare online ed ha catturato la mia attenzione.
È una frase breve, scritta con un gesso al neon su una strada vuota. Dice:
Ed è vero. Nel bene e nel male.
C'è tempo per riprovare, per vincere e perdere, per sopravvivere e per giocarsi quel poco che ci resta nel disperato tentativo di camminare un po’ più a lungo, di soffrire un po’ di meno.
Okay, vi chiederete. Ma cosa succede se ormai siamo senza speranza? Cosa succede se siamo in minoranza, se ci hanno abbandonato, se abbiamo a malapena la forza di sdraiarci per andare a dormire?
Forse ci sono delle buone risposte a questa domanda, e spero sinceramente che passino alla storia. In ogni caso, però, dubito che saranno trasmesse attraverso delle poesie.
Può l'arte dire o fare qualcosa di significativo per coloro la cui sopravvivenza è appesa a un filo? Che tipo di potere hanno le parole, quando la qualità della vita ti permette di bere solo una volta al giorno?
Onestamente, credo che dipenda dai singoli casi. Alcune persone sentono il bisogno di scrivere, disegnare o cantare fino alla fine, anche durante una strage, mentre altre semplicemente non vogliono, o non riescono a sopportarlo, o non hanno l'energia per provarci.
I Saw The TV Glow questo sembra capirlo molto bene. Il messaggio è chiaro: guardare un film non vi salverà la vita, così come uno schermo luminoso non risolverà i vostri problemi. La fantasia fa da eco solo a cose che già conoscete.
Credo sia proprio questa la ragione per cui l'ultima scena della storia non ci soddisfa. La storia non finisce, piuttosto cade nelle nostre mani aperte, bruscamente e senza tante cerimonie.
Ci lascia, con la voglia di avere di più.
È domenica sera. Le ultime ore non sono state facili per me, ma al momento mi sento bene. Le mie mani sono ferme e i miei occhi sono aperti. Riesco a vedere chiaramente anche nella penombra.
La mia amica mi ha appena chiesto una spiegazione e io ne ho una buona da darle. Decido di farlo nel modo più diretto possibile.
“Allora, so che il film sembra incredibilmente triste. Io però mi aspettavo quasi da subito un finale brusco. Ti ricordi quando Maddy scompare, e The Pink Opaque finisce a caso con un cliffhanger brutale? Sta cosa mi è rimasta impressa quando l’ho visto per la prima volta, ho letteralmente pensato ‘okay palese anche il film finisce male.”
“Ma non è neanche questa la cosa più importante. Il film non finisce solo male: finisce nel momento peggiore della vita di Isobel. Hai presente quando Tara racconta che prima di essersi fatta seppellire viva ha avuto una specie di breakdown, ha urlato ed ha implorato aiuto ed ha iniziato a chiedere scusa a tutti?”
La mia amica annuisce.
“È quel momento a farla cambiare, a spingerla oltre il limite. Lo stesso potrebbe valere per Isabel, ma chi lo sa. Non puoi controllare come finisce la sua storia. Hai solo un po' di voce in capitolo sulla tua. Quindi, tu, da spettatore, cosa farai? Sei disposto a riconoscere il mostro che ti sta mangiando vivo?”
“E magari non uscirai mai dalla tua tomba e magari non avrai mai la possibilità di rimettere il cuore nel tuo petto. Alcune persone semplicemente non avranno mai quello che si meritano. Ma è importante ricordare che finché siamo vivi, tutti i nostri cuori respirano ancora”.
Ci sono alcuni istanti di comprensibile silenzio.
Io ho avuto una settimana intera per inventarmi qualcosa da dire e abbastanza entusiasmo per abbellire le mie conclusioni ogni volta che me le sono ripetute. La mia amica, invece, sta cercando solo adesso di mettere i suoi sentimenti in parole.
Vedo nella sua espressione la stessa intensità che ci unisce quando parliamo di politica. Il peso dell'ingiustizia, l'enormità di ogni singola tragedia annunciata e infine la nostra rabbia, la nostra fame, il nostro desiderio di sederci a un tavolo con il maggior numero di persone possibile per capire cosa cazzo abbiamo il potere di fare.
“Okay. Lo capisco”, dice la mia amica. “È molto bello”.
Il resto della conversazione mi sfugge, si perde in distrazioni circostanziali e riflessioni personali, ma credo che quello che ricordo sia sufficiente.
“Sì”, devo aver risposto, senza pensarci, anche solo per godermi questa sensazione e respirarla fino in fondo. “Lo è.”